1944 – 10 maggio: rastrellamento e rappresaglie

10/5/1944 – Rastrellamento e rappresaglie (21-26 maggio)

La primavera del 1944 si apre con una grande controffensiva nazifascista in Piemonte, l'"Operazione Abicht" (in tedesco indica l'astore, un uccello rapace). Il ciclo controffensivo coinvolge prima le valli Maira, Varaita, Casotto; nella seconda metà d'aprile è la volta delle altre valli del Cuneese, Vermegnana, Gesso, Stura e Grana, dove viene impiegata un'intera divisione della Wehrmacht; all'inizio di maggio tocca alla provincia di Torino.

All’alba del 10 maggio arrivano in Val Sangone tremila soldati (Sonzini in "Abbracciati per sempre", sulla base di testimonianze, propende per un totale di 2000 uomini), sicuramente poco meno della consistenza di una divisione: ci sono le compagnie di SS italiane, una compagnia di metropolitani comandata dal tenente Saia, un pattuglione di carabinieri che avevano aderito alla GNR e, soprattutto, quattro compagnie di Alpenjager, gli sciatori tedeschi addestrati alla guerra in alta quota. I primi affluiscono da Avigliana e da Orbassano con i mezzi meccanici: gli Alpenjager scendono invece dalla montagna, attraverso il Colle della Russa e il Col Bione: una vera e propria occupazione della vallata, con la penetrazione dal fondovalle e la conversione dai colli vicini.

Mentre il Comando delle operazioni si sistema nella Villa Garrone sotto la direzione di un colonnello tedesco, le truppe si spargono in tutta la valle, soprattutto verso le zone di Maddalena-Prafieul e di Forno. Completa l’accerchiamento un sistema di posti di blocco a valle di Giaveno, verso Avigliana, Trana e Cumiana.

L'attacco nazifascista non giunge imprevisto, si sa dei rastrellamenti del Cuneese.

Qualche giorno prima alcuni uomini della «Nino-Carlo» avevano compiuto un'azione alla cava provinciale di Piossasco, prelevando esplosivi e materiale per il brillamento delle mine ed erano stati minati i ponti sul Sangone delle borgate Ponte Pietra e Sangonetto, gli unici che davano accesso ai valloni della Maddalena e del Forno.  La formazione di Giulio Nicoletta si era ritirata verso il Colle della Russa e quella di Sergio De Vitis verso l'alpeggio del Sellerì, abbandonando le postazioni di fondovalle.

La previsione dell'offensiva tedesca non basta però per garantire la solidità della difesa.

  In primo luogo, alle bande manca il coordinamento: in uno spazio relativamente stretto come la Val Sangone, qualsiasi tipo di risposta (difesa ad oltranza, sganciamento manovrato o per piccoli gruppi, resistenza sui crinali) esige un comando unico che diriga i movimenti delle singole formazioni invece l'autonomia operativa dei singoli gruppi diventa un fattore di debolezza di fronte ad un attacco mirato. I depositi di materiale e di viveri, sistemi di difesa, piani di sganciamento sono organizzati all'interno di ogni formazione, senza un tentativo d’integrazione a livello di vallata, gli stessi appostamenti avanzati, per vigilare sulle manovre nemiche, non sono coordinati:

In secondo luogo, nessuno pensa ad un attacco proveniente dalle montagne e ad una conversione dalle vallate laterali e comunque i partigiani della Val Chisone sembra avessero garantito una copertura che poi non c’è stata.

A questi limiti si aggiunge la precarietà dell'armamento e delle riserve di munizioni, problema costante delle bande sin dal settembre 1943.  All'inizio di maggio c'è stato il primo lancio alleato, lungamente promesso e atteso, ma il rifornimento è stato modesto: circa sessanta parabellum e alcune casse di munizioni, paracadutati nella zona del Palé.  Di fatto, le formazioni possono contare solo sulle armi che recuperano con i colpi in pianura.

Questo insieme di elementi spiana la strada all'attacco tedesco: tatticamente impreparate e divise, le bande vengono sorprese da un'offensiva che le autorità militari germaniche hanno invece preparato nei dettagli.  Alle sei di mattina del 10 maggio si spara già in vari punti della vallata e i primi partigiani cadono.

La «Nino-Carlo» è la prima formazione ad essere investita.  L’attacco proviene dalla prevista direzione del fondovalle, ma la banda è ancora in fase di riorganizzazione, dopo la scissione del gruppo Fassino e il passaggio di un'altra parte degli effettivi al comando di Pamparato. Solo due giorni prima, l'8 maggio, c'è stato il riordinamento per plotoni, Criscuolo è spesso in pianura con la squadra volante e Asteggiano non sembra avere sempre l'ascendente necessario.

 

Valle del Tauneri – Maddalena

Alle 4.40 del 10 maggio, su segnalazione a razzo da Trana, la guardia della «Nino-Carlo» dà l'allarme.  La pattuglia del Ponte Pietra, che avrebbe dovuto far saltare il ponte minato, non riesce ad accendere l'esplosivo e, pressata dai rastrellatori, si ritira nei boschi di Pomeri.  Alle 7.00 circa quattrocento fra tedeschi e SS italiane raggiungono la Maddalena su 26 camion portando un carro armato, tre mortai e numerose mitragliatrici:

Dalla prima segnalazione all'arrivo dei rastrellatori sono trascorse più di due ore, il tempo sufficiente per ritirarsi verso l'alto, ma qualcosa, evidentemente, non funziona perché la banda rimane sulle proprie posizioni, sparsa nelle baite fra la Maddalena e il Pontetto:

Carlo Asteggiano e Nino Criscuolo ordinano allora il ripiegamento verso il colle dell'Asino e il colle del Bes e intanto organizzano una pattuglia di una ventina di uomini, fra cui Guido Quazza,  che contrasta il terreno ai nemici per tutto il giorno.

Mentre le avanguardie dei rastrellatori si scontrano con i partigiani, gli altri reparti ispezionano le borgate casa per casa, perquisiscono e si appropriano di valori con brutale rapacità.

Quando a sera i rastrellatori si ritirano dalla Maddalena a Giaveno, il bilancio è pesante: a Balangero, al Viretto, al Fusero molte baite sono in fiamme; una cinquantina di civili fermati e portati al comando tedesco dì Villa Garrone per controlli; i partigiani della «Nino-Carlo» hanno contenuto le perdite e si sono ritirati verso la zona della Merlera – Colle dell'Asino, ma hanno lasciato in mano nemica i depositi di viveri e le scarse riserve di munizioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Valle del Forno

Sempre all’alba del 10 maggio altri reparti tedeschi e fascisti scendono dal colle della Russa sorprendendo gli uomini di Sergio De Vitis e di Giulio e Franco Nicoletta. i primi nell’alpeggio del Sellerì inferiore; i secondi nella Villa Sertorio. La banda De Vitis viene decimata, quella Nicoletta riesce a sganciarsi senza gravi perdite.

Mentre nell'alta valle avvengono questi scontri, al Forno i rastrellatori si accaniscono contro  le case, la borgata Ferria viene distrutta, e la popolazione civile, il parroco  don Beniamino Mattone con altri trentatré ostaggi viene portato in un carcere provvisorio a Coazze.

Alla sera del 10, come alla Maddalena, il rastrellamento viene interrotto e i reparti si ritirano a Coazze, dove i locali del municipio sono stati trasformati in carcere.  Il bilancio è di quaranta partigiani e tre civili uccisi e di oltre cinquanta case date alle fiamme.

Una terza direttrice della controffensiva tedesca si abbatte sull’Indiritto dalla valle di Susa e investe la banda «Genio», attestata sulla dorsale Colle Braida – Col Bione.  Dopo aver assediato i tedeschi ritiratisi nella cappella del colle i partigiani al sopraggiungere di rinforzi nemici si ritirano verso i Picchi del Pagliaio, l'unica zona della montagna che i rastrellatori non avevano chiuso, dove ritrovano i superstiti delle bande di De Vitis e di Nicoletta, che dal Sellerì avevano passato il costone della Balma.

L'unica formazione che non subisce perdite significative è quella di Pamparato e Somaglino: accampati alle Prese di Franza (e quindi lontani sia dai rastrellatori che scendono dalle montagne, sia da quelli che risalgono dal fondovalle) i loro uomini non vengono investiti dall'attacco e possono organizzare la ritirata verso Cumiana e la pianura.

Il bilancio complessivo della giornata è di oltre cinquanta partigiani e dieci civili uccisi, a cui si aggiungono numerosi feriti e più di cento case date alle fiamme: un colpo grave inferto al movimento resistenziale della vallata e che tuttavia non esaurisce l'operazione decisa dalle autorità germaniche. I reparti si ritirano, infatti, al tramonto, ma senza abbandonare Giaveno e Coazze:

L'occupazione militare dura sino al 18 maggio. L'11 e il 12 ci sono ancora scontri con le bande nell'alta valle, gli altri giorni sono invece di rastrellamento sistematico borgata per borgata, di interrogatori ai civili, di arresti e fucilazioni.

Disperse in due diverse zone, ai Picchi del Pagliaio – vallone della Balma e al colle dell'Asino – Colle del Bes, le bande cercano di resistere o di sganciarsi senza una strategia comune.  Alcuni uomini, originari della vallata o di paesi vicini, ritornano alle proprie abitazioni, muovendosi di notte attraverso i boschi. Ma anche tornare a casa propria è rischioso: Renato Ruffinatti, che ha fatto così dopo lo scontro a Villa Sertorio, è catturato in casa.

Le formazioni di Sergio De Vitis e Giulio Nicoletta rimangono nella zona del Pagliaio, nascoste fra le rocce, approfittando del fatto che i tedeschi non perlustrano il vallone della Balma; la «Nino-Carlo» ripiega invece verso le alture di Cumiana, insieme con la «Campana», da dove una parte degli effettivi scende individualmente in pianura, mentre gli altri manovrano in piccoli gruppi lungo il crinale Verna -Fusero, cercando di eludere le pattuglie tedesche.  Gli scontri più duri vengono sostenuti dalla banda di Eugenio Fassino, che dal Pagliaio risale al colle dei Vento per guadagnare la valle di Susa. Intrappolati sul Monte Villano, sfiniti dal freddo, riescono a filtrare tra le maglie nemiche favoriti da un rumoroso temporale che consente loro di sorprendere e sopraffare una postazione tedesca e di ritrovarsi in un centinaio a San Giorio.

Dal 12 maggio, il teatro del rastrellamento diventa il fondovalle. A Coazze e a Giaveno i comandi tedeschi stabiliscono dei centri di raccolta dove vengono radunati tutti i fermati: partigiani, civili sospettati di complicità, uomini in età di leva, presunte staffette si ammassano in attesa di essere interrogati. I fermi sono per lo più casuali: l'intera popolazione di una borgata (è il caso del Forno), valligiani sorpresi dalle pattuglie mentre cercano di nascondersi, civili inquisiti per una qualunque espressione sospetta ai rastrellatori. Repressione e intimidazione non risparmiano le autorità costituite (la caserma dei carabinieri di Giaveno viene perquisita, il maresciallo Santoro fermato, lo stesso podestà Zanolli minacciato) e neppure il clero: don Mattone, parroco di Forno, viene arrestato, don Crosetto, parroco di Giaveno, schiaffeggiato.

 L'arbitrio dei militari viene stimolato dai comandi, che intendono colpire tanto il movimento partigiano quanto la vallata che lo appoggia. Arresti, incendi di abitazioni, furti, percosse fanno parte di una stessa logica del terrore, casuale nell'individuazione delle vittime ma mirata nell'obiettivo generale. E in questa logica s’inserisce l’ultima barbarie: il 16 maggio 23 partigiani vengono portati a Forno, mitragliati alle gambe e lasciati morire nella Fossa Comune. Fucilazioni di partigiani e di civili erano già state fatte durante il rastrellamento: cinque alla Garida, sulla mulattiera che da Forno sale al colle della Russa, altre quattro alla Balma (i cadaveri sarebbero stati scoperti solo in luglio), due a Giaveno.  Ciò che il Comando tedesco voleva era però un'esecuzione di massa, monito per la popolazione e per il movimento resistenziale.

Il 18 maggio i rastrellatori abbandonavano la Val Sangone: in una settimana hanno ucciso un centinaio di partigiani e diciotto civili, catturato e deportato in Germania oltre cinquanta uomini, incendiato due paesi interi (Pontetto e Forno) e numerose case in ogni frazione.

sacra e san pietro
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I superstiti stanno ancora recuperando le salme delle vittime per seppellirle, quando i tedeschi tornano in vallata.  Il 20 maggio due ufficiali germanici vengono uccisi alla Braida, località Bonaria, in un'imboscata decisa sulla spinta dell'emozione, ma con evidente imprudenza tattica: il giorno successivo una colonna autotrasportata della «Falk» entra in Giaveno e, dopo aver caricato tutti gli uomini che si trovano in piazza, si dirige verso Valgioie. Due giovani della frazione Villa, Candido Ostorero e Michele Maritano, che tentano di fuggire, vengono fucilati vicino all'Albergo Centrale di Giaveno.  In poche ore oltre trecento persone vengono raccolte al Colle della Braida e poi condotte a piedi ad Avigliana. Solo alle 18.00 la lunga processione degli ostaggi rientra a Giaveno, dopo aver subito sadiche intimidazioni (raffiche in aria e frustate) dal colonnello Nerek. Viene perquisita anche la Sacra di San Michele e, nel pomeriggio del 22 maggio bombardata la Borgata San Pietro.

Tre giorni dopo, il 24 maggio, nuova incursione.  Due prigionieri inglesi, catturati durante il rastrellamento del 21, confessano sotto tortura di essere stati nascosti in una borgata del Selvaggio e il Comando germanico decide il cannoneggiamento di Selvaggio Sopra.

Ma non è finita, la morte dei due ufficiali tedeschi alla Braida esige una vendetta più esemplare: il 26 maggio giungono in vallata per essere fucilati quarantun prigionieri prelevati dalle carceri Nuove, partigiani catturati nella stessa Val Sangone o in precedenti incursioni in Val Chisone e nel Canavese.

Per garantire maggior efficacia deterrente, le esecuzioni avvengono contemporaneamente in quattro diverse località: undici alla Bonaria, dieci a Valgioie, a Giaveno e a Coazze.

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