Mortara Andrea – “Guerra e Resistenza – Tra memoria e rappresentazione”

mortara a tesi

La tesi di laurea di Andrea Mortara, dal titolo "Guerra e Resistenza – Tra memoria e rappresentazione, Il caso di Coazze" si articola sostanzialmente in due parti, nella prima racconta in modo fluido, ma esauriente, le vicende della Resistenza in Italia e in Val Sangone. Di questa parte lo stralcio sotto riportato può essere un ottimo approfondimento per chi ha letto nel sito Cronologia Resistenza in Val Sangone e vuole saperne di più. 

La seconda parte della tesi, fin dal titolo "Memoria e territorio: cippi, lapidi, monumenti e toponomastica nel Comune di Coazze", fa capire quanto sia stata fondamentale per arricchire questo sito.

 

coazze mappa

 

 

 

 

 

 

[1]  Istituto Centrale di Statistica, Dizionario dei Comuni del Regno al 31 marzo 1927, dati citati in Gianni Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, Franco Angeli, Milano, 1989, pag. 5.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] Testimonianza di Liliana Ostorero, classe 1925, operaia in pensione, raccolta da Cesare Alpignano il 2 luglio 1996 e contenuta in Cesare Alpignano, Una comunità alpina nella guerra e nella lotta di liberazione: il caso di Coazze, tesi di laurea, Università di Torino, facoltà di Storia, a.a. 1998/1999, p. 13.

[3] Testimonianza di Delfina Ostorero, classe 1922, operaia in pensione, raccolta da Cesare Alpignano il 19 giugno 1996 e contenuta in Alpignano, Una comunità alpina nella guerra e nella lotta di liberazione, cit., pp. 13-14.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[4] Numerose informazioni sul clero in Val Sangone (prima e durante la Resistenza) sono contenute in Tra fede e impegno civile. Il ruolo del clero nella Resistenza in Val Sangone 1943-1945, Turingraf, Torino, 1995.

 

 

 

 

 

 

 

[5] In particolare quelle di Piera Versino, Giovanni Giai Miniet e Remo Picco. La prima raccolta da Gianni Oliva il 5 marzo 1988 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 19. Le altre due raccolte dal gruppo Dellavalle l'8 ed il 21 febbraio 1984 e contenute in Claudio Dellavalle (a cura di), Guerra e Resistenza nella Val Sangone tra memoria e storia 1939-1945, Fotolitografia Dalmasso, Coazze, 1985.

 [6] Testimonianza di Eugenio Quatto, classe 1927, operaio, raccolta da Giorgio Cugno il 6 ottobre 1986 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 23.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[7] Testimonianza di Giuseppe Rege Gianas, classe 1908, operaio, raccolta da Gianni Oliva il 16 febbraio 1983 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 29.

[8] Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p.26.

 

 

[9] Riportati nell’Annuario statistico della città di Torino 1943, Accame, Torino, 1943, e citati in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 38.

[10] Testimonianza di Luigi Giacone, classe 1925, operaio in pensione, raccolta da Cesare Alpignano il 20 maggio 1996 e contenuta in Alpignano, Una comunità alpina nella guerra e nella lotta di liberazione, cit., p. 31.

[11] Testimonianza di R. F., classe 1923, operaia, raccolta dal gruppo Dellavalle il 6 maggio 1984 e contenuta in Claudio Dellavalle (a cura di), Guerra e Resistenza nella Val Sangone tra memoria e storia 1939-1945, cit., p. 29.

 

[12] Testimonianza di Albina Lussiana, classe 1927, impiegata in pensione, raccolta da Cesare Alpignano il 30 luglio 1996 e contenuta in Alpignano, Una comunità alpina nella guerra e nella lotta di liberazione, cit., p. 39.

[13] Le notizie biografiche sul maggiore Milano sono tratte da Gianni Oliva (a cura di), Luigi Milano. Un ufficiale degli Alpini nella guerra e nella Resistenza, Torino, Servizi Finanziari Amministrativi, 1990.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[14] Testimonianza di Bartolomeo Romano, classe 1924, in Il maggiore Milano nella memoria valligiana in Oliva, Un ufficiale degli Alpini nella guerra e nella Resistenza, cit., p. 69.

 

[15] Nel dopoguerra verrà intitolata a Maurizio Guglielmino una via a Giaveno. Ad Evelina Ostorero, invece, è stata recentemente intitolata la Casa Alpina di borgata Ferria a Coazze.

[16] Eugenio Fassino, Diario, riportato in Roberto Cresta, La Resistenza in Val Sangone, tesi di laurea, a.a. 1969/1970, p. 65.

 

 

[17] Testimonianza di Dante Rosa, classe 1924, partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 12 marzo 1988 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 82.

[18] Giulio Nicoletta, Luigi Milano comandante partigiano in Oliva, Un ufficiale degli Alpini nella guerra e nella Resistenza, cit.,  p. 55.

 

[19] Testimonianza di Giulio Nicoletta, classe 1921, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 3 febbraio 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 72.

 

 

 

 

 

[20] Testimonianza di Mario Massola, classe 1923, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 7 aprile 1988 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 93.

 

 

   

[21] Testimonianza di Giulio Nicoletta, classe 1921, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 3 febbraio 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 96.

 

 

[22] Guido Quazza, La Resistenza italiana: appunti e documenti, Giappichelli, Torino, 1966, pp. 169-170.

 

 

[23] «Uno studente di vent’anni con tre amici partigiani attacca in valle di Susa, presso Torino, un caposaldo nemico e ottiene la resa di tutti i militari». Riportato in Marina Fornello, La Resistenza in Val Sangone, tesi di laurea, Università di Torino, facoltà di Legge, a.a. 1961/1962, p. 52, citato in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 112.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[24] Giuseppe Zanolli, Diario, copia dattiloscritta conservata presso l’Istituto Storico della Resistenza  di Torino, p. 17.

[25] Nel dopoguerra Campagna diventerà una delle personalità più importanti dell’ambientalismo piemontese nonché dirigente dell’associazione Pro Natura Torino. Alla sua morte, avvenuta nel 1974, gli altri attivisti del gruppo decisero di onorarne la memoria contribuendo al rimboschimento di una vasta area situata nel Comune di Coazze. La stessa area verrà poi intitolata «Bosco Ugo Campagna».

 

 

 

[26]  Testimonianza di suor Amalia Bianchi, classe 1920, raccolta dal gruppo Dellavalle il 14 gennaio 1984 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 130.

[27] Entrambi i documenti sono stati pubblicati (parzialmente il primo ed integralmente il secondo) in appendice a Tra fede e impegno civile. Il ruolo del clero nella Resistenza in Val Sangone 1943-1945, cit., pp. 136-141.

 

 

 

[28] Similmente ai documenti riguardanti la Certosa, anche il «Diario della Casa» è stato pubblicato (nelle sole parti riguardanti direttamente guerra e Resistenza) in appendice a Tra fede e impegno civile. Il ruolo del clero nella Resistenza in Val Sangone 1943-1945, cit., pp. 119-129.

[29] A partire dagli anni Sessanta, dapprima nel Belice e successivamente come vescovo di Acerra, Riboldi conobbe notorietà nazionale per il suo impegno nella lotta alla mafia ed alla camorra. Uno suo scritto, in cui ricorda il periodo trascorso alla Sacra durante la guerra,  è contenuto  appendice a Tra fede e impegno civile. Il ruolo del clero nella Resistenza in Val Sangone 1943-1945, cit., pp. 133-135.

[30] Padre Andrea Alotto. Uomo Pio – Testimonianze e inediti, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa, 1994.

 

 

 

 

[31] [32] [34] Testimonianza di Giulio Nicoletta, classe 1921, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 3 febbraio 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., pp. 172-175.

[33] Testimonianza di Nino Criscuolo, classe 1920, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 27 marzo 1988 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 172.

 

 

[35]  Come molti altri criminali di guerra nazisti, anche il tenente Anton Renninger, principale responsabile dell’eccidio di Cumiana, riuscì a sfuggire alla giustizia italiana approfittando del mutato clima politico instauratosi, nel dopoguerra, tra l’Italia e la Germania Federale. Rintracciato in Germania nel 1998 dal giornalista di «Repubblica» Alberto Custodero (che, grazie alla sua inchiesta, riuscì anche a far aprire un nuovo procedimento giudiziario sul caso), venne rinviato a giudizio dal tribunale di Torino ma morì dopo pochi mesi, nell’aprile del 2000.

[36] Il numero degli effettivi impiegati è dubbio: tra tremila e tremilacinquecento secondo Gianni Oliva [in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 192], diecimila per Guido Quazza [in Quazza, , La Resistenza italiana: appunti e documenti, cit., p. 180] addirittura quindicimila per Marina Fornello [in Fornello, La Resistenza in Val Sangone, cit., p. 68]. In Mauro Sonzini, Abbracciati per sempre, Gribaudo, Cuneo, 2004 si citano alcune ricerche, effettuate anche presso archivi tedeschi, da Carlo Gentile ed Alberto Turinetti di Priero che abbassano invece il numero a duemila.

 

 

 

[37] Tra gli informatori dei partigiani vi è anche un sottotenente della Wehrmacht, Ernst Hermann Schindler Pappenheim. Nato nel 1902 a Vienna, Schindler è a capo del presidio tedesco di Rivoli. Nel corso della primavera del 1944, disgustato dall’enorme violenza che veniva perpetrata ai danni di civili e partigiani, decide di iniziare a collaborare con la Resistenza ed il CLN. Nei mesi successivi Schindler fornirà ali partigiani preziose informazioni sui movimenti delle truppe tedesche e su eventuali rastrellamenti e, grazie alla sua attività, riuscirà a salvare dalla deportazione numerosi ebrei della zona. Dopo la guerra Schindler deciderà di stabilirsi definitivamente a Rivoli. Morirà a Torino, in condizioni di grave indigenza, nel 1990. È sepolto nel cimitero di Rivoli dove è stata posta anche una lapide in suo ricordo.

[38] Guido Quazza, La Resistenza italiana: appunti e documenti, cit., pp. 180-181.

 

 

[39] Testimonianza di Paolo Morena, classe 1921, partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 16 maggio 1985 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 195.

[40] Sonzini, Abbracciati per sempre, cit., p. 40.

 

 

 

 

 

 

[41] Da una lettera di Alfonso Messina a Mauro Sonzini scritta in data 19 febbraio 2004 e contenuta in Sonzini, Abbracciati per sempre, cit., p. 162.

 

 

[42]  In due lettere, conservate nell’archivio storico del Comune di Coazze, ed inviate alla Prefettura di Torino (la prima del 27 luglio 1943, la seconda del 5 novembre dello stesso anno) il podestà Rabajoli chiedeva con insistenza di essere esonerato dall’incarico. Nella prima missiva, inviata al Prefetto Dino Borri,  si legge: «Io sottoscritto, ing. Rabajoli Luigi, Podestà di questo Comune dal maggio 1926, scaduto nel giugno u.s., ma trattenuto in carica da cotesta R. Prefettura in attesa di provvedimenti, chiedo di essere esonerato da tale impegno per i seguenti motivi: = condizioni di salute assai depresse, che richiedono un tenore di vita più tranquillo e regolare; già più volte segnalato; = mancanza del tempo necessario per le cure dell’Amministrazione Comunale e gli altri compiti connessi, date le mie occupazioni che mi impegnano anche le ore del giusto riposo, (situazione già nota); = opportunità di mutamento di uomo e di indirizzo amministrativo, dopo 17 anni di permanenza continua della medesima persona; = necessità di evitare incresciosi contrasti, pregiudizievoli per il principio di autorità connesso colla carica di amministratore; = menomato prestigio di fronte a tutti in conseguenza dei recenti storici avvenimenti. Alcuni fra questi argomenti già hanno formato, anche recentemente, oggetto di verbale richiesta all’Ecc. il Prefetto Di Suni, il quale però mi mise in condizione di non poter insistere facendo appello a sentimenti di dovere e disciplina che in tempo di guerra impegnano tutti i cittadini a rendersi utili per il proprio Paese. […]» La lettera così si concludeva «Ho coscienza di aver servito con fedeltà e con onore la mia Patria e il Re, sia sui campi di battaglia che facendo il Podestà in questo Comune, e nella mia vita pubblica e privata mi sono sempre ispirato a sentimenti di italianità, di ordine e di giustizia e ho cercato di infondere negli altri i medesimi principi. Perciò ora che chiedo di essere esonerato da questo posto di responsabilità e di lavoro sono fiero di lasciarlo a fronte alta e con la coscienza tranquilla, pago di quanto mi è riuscito di fare di utile e di buono a vantaggio della Comunità.» Nella seconda lettera, inviata al Prefetto Zerbino, Rabajoli lamenta di essere ancora impegnato nell’amministrazione del Comune «per la mancata presentazione del Commissario Prefettizio allora nominato da cotesta Prefettura e la ritardata nomina di altri a sostituirlo […]» adducendo nuovamente motivazioni di salute e personali (il trasferimento lavorativo dallo stabilimento di Coazze a quello di Torino nonché la necessità di stare vicino alla famiglia, sfollata a Lanzo Torinese) che gli avrebbero impedito di mantenere la carica. Nel dopoguerra Luigi Rabajoli rimarrà a vivere a Coazze. Pur non ottenendo riconoscimenti pari a quelli di Zanolli (che sarà eletto sindaco di Giaveno nel 1951), l’ex podestà verrà comunque considerato benevolmente dai coazzesi . Nel corso degli anni prenderà parte a numerose celebrazioni pubbliche, tra cui quelle per Italia ’61 e quelle in ricordo della Resistenza, e ricoprirà il ruolo di presidente onorario della sezione coazzese dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. Morirà nel 1987 all’età di 91 anni. 

 

 

[43] Documento della Regia Prefettura di Torino, Divisione Gab., N. di prot. 19281 in cui si nomina il conte Pinelli come Commissario Prefettizio per il Comune di Coazze e, contestualmente, si ringrazia il Podestà Rabajoli per il lavoro svolto e lo si esorta a «prendere accordi con il nuovo Commissario per le rituali consegne.».

 

[44] Il numero effettivo è però ancora discusso: secondo Gianni Oliva (Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 202) si tratterebbe di ventitrè partigiani più cinque o sei ignoti (tra i quali, probabilmente, anche qualche civile).

 

 

 

 

 

 

 

 

[45] Testimonianza di Ines Barone, classe 1919, staffetta partigiana, raccolta da Gianni Oliva il 9 giugno 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit.,  p. 202.

 

[46]  Testimonianza di Bruno Pautasso, classe 1922, partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 18 dicembre 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 203.

 

 

 

[48]  Nel maggio 1994, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte, il Comune di Giaveno ha posato una targa in ricordo di Demetrio Tessa sulla facciata della sua casa a presa Tessa (poco più a monte della presa del Colonnello).

 

 

[49] Testimonianza di Giulio Nicoletta, classe 1921, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 5 febbraio 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 212.

 

  

 

[50] A Sergio De Vitis verrà assegnata la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria. A lui verrà intitolata la  divisione autonoma «Sergio De Vitis» (che diventerà in seguito 43ª divisione autonoma «Sergio De Vitis») che si creerà in valla a partire dall’ottobre 1944. Inoltre, a ricordo di De Vitis, verranno intitolate una via a Lettopalena (Chieti) dov’era nato, una a Frossasco (suo Comune di residenza), un’altra nella frazione Ponte Pietra di Giaveno ed una piazza a Coazze. A Sangano, infine, è stato dedicato a De Vitis il sentiero che conduce alla borgata Prese, dove si trova l’edificio dell’ex polveriera. Qui è stato anche posto un cippo in ricordo dei partigiani caduti il 26 giugno 1944 .

 

 

 

 

[51] A ribadire l’importanza della figura di «Campana» nella storia della Resistenza in Val Sangone (ma non solo) vi sono numerose testimonianze. Il 28 aprile 1945, dopo la presa della Casa Littoria di via Carlo Alberto, Guido Usseglio Mattiet decide di intitolare l’edificio Palazzo Campana in onore del Marchese di Pamparato. Il palazzo, l’unico in tutta la città a mantenere anche in seguito la denominazione partigiana, è ora sede del Dipartimento di Matematica dell’Università degli Studi di Torino. Per ricordare la figura di Campana, il 20 aprile 2006, è stata apposta in loco una lapide. A Torino, inoltre, vi è una via Felice Cordero di Pamparato. Naturalmente anche la Val Sangone ha ricordato il Marchese, intitolandogli una via a Giaveno ed una piazza a Coazze.

 

 

[52] Il capitano Patrick Valentine William Rowan O’Regan nasce a Marlborough nella contea del Wiltshire, in Inghilterra, il 2 febbraio 1920. Dopo aver concluso gli studi al Merton College di Oxford, nel 1939 entra nell’esercito. Inizialmente è impegnato in Asia orientale. Nel 1944 entra a far parte del SOE (Special Operations Executive) ed opera in Francia – nel sud-est del paese ed in particolare nella zona di Marsiglia, dove utilizza il nome di battaglia di “Chape” – e nel nord Italia a stretto contatto con i partigiani. Dopo la guerra è dapprima impegnato a Ceylon e, dal 1946, presso il Ministero degli Esteri britannico. Muore prematuramente l’8 marzo 1961 a Parigi. Presso il Liddel Hart Centre for Military Archives del King’s College di Londra è conservato un fondo, donato dalla famiglia O’Regan tra il 1980 e il 1991, contenente numerose missive e documenti originali riguardanti (soprattutto) l’attività svolta in Francia ed Italia.

 

 

[53] Testimonianza di Paolo Venco raccolta da Cesare Alpignano e contenuta in Alpignano, Una comunità alpina nella guerra e nella lotta di liberazione, cit., pp. 96-97.

 

 

 

 

[54] Riportato in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 333.

[55] Ibid.

 

 

 

[56] Zanolli, Diario, cit. p. 315.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[57] L’8 febbraio 1946 nel luogo dello scontro (piazza Santa Rita) è stato posto un cippo in ricordo dei cinque caduti: Edoardo Dabbene, Lorenzo Fornera, Salvatore Mastromauro, Hans Herger – di nazionalità cecoslovacca – e Felice Versino. Una foto del cippo, con una sintetica descrizione, è contenuta in Le pietre della libertà, Tipolito Subalpina, Torino, 1995, p. 73.  Un più ampio commento (ed una piccola biografia dei caduti) è invece presente nel volume pubblicato nel 2004 dall’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e della Storia Contemporanea e curato da Nicola Adducci, Luciano Boccalatte e Giuliana Minute, Che il silenzio non sia silenzio: memoria civica dei caduti della Resistenza a Torino, Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Torino, 2003 pp. 75-76.

[58] Testimonianza di S. B. raccolta dal gruppo Dellavalle e contenuta in Claudio Dellavalle (a cura di), Guerra e Resistenza nella Val Sangone tra memoria e storia 1939-1945, cit., p. 119.

1.2 La Resistenza in Val Sangone

  La Val Sangone è una valle alpina situata nella parte occidentale del Piemonte, in provincia di Torino. La valle orograficamente  si estende sulla sinistra  del corso del torrente Sangone, affluente del Po, che nasce alle pendici delle Alpi Cozie.  Si tratta di una valle chiusa, sebbene confini con la Valle di Susa (a nord) e con la Val Chisone (a sud). Pur avendo una modesta estensione (circa 25 km2) la valle comprende i territori di otto comuni: Coazze, Valgioie, Giaveno, Trana, Reano, Sangano, Bruino e Rivalta.

  Il Comune di Coazze – oggetto di questa ricerca – ha un’altitudine di 750 m s.l.m. e conta oggi 3.400 abitanti circa. Durante il periodo preso in esame, la popolazione era lievemente maggiore (3.816 persone secondo i dati Istat del 1927[1]), la quasi totalità viveva – contrariamente ad oggi – nelle numerose borgate ed appena 186 (il 4,91%) erano i residenti nel capoluogo. Una situazione analoga – seppure con percentuali un po’ più  contenute – era quella di Giaveno dove oltre l’80% degli abitanti risiedeva nelle borgate. Queste (situate quasi tutte tra i 600 ed i 1200 metri di altitudine) avevano una struttura abbastanza standardizzata ed elementare: poche abitazioni, tutte realizzate in pietra e con l’uso delle «löse» per coprire il tetto, fra loro ravvicinate o addirittura contigue così da ridurre al minimo lo spreco di terreno coltivabile. Le borgate comunicavano con il capoluogo attraverso sentieri o mulattiere e solo pochissime erano collegate attraverso strade carrozzabili. Tra esse la borgata Ruadamonte a partire dal 1929, Forno di Coazze dal 1934 e borgata Savoia dalla seconda metà degli anni Trenta. L’attività principale dei valligiani era l’agricoltura, sebbene solo una minima parte dell’intera superficie comunale fosse terreno seminativo, il rimanente erano prati e boschi. La proprietà fondiaria era estremamente frammentata, con la presenza di moltissimi proprietari i cui piccoli appezzamenti di terreno non potevano pienamente soddisfare la sussistenza di un nucleo famigliare. Anche l’allevamento (soprattutto bovino ed in piccola parte ovino), sebbene abbastanza fiorente, non riusciva a coprire del tutto il fabbisogno giornaliero ed era più che altro visto come integrazione al bilancio familiare. Pochi (circa il 6%) e neanche troppo agiati i commercianti.

  A garantire nuovi fonti di guadagno contribuirono però le numerose fabbriche sorte nel fondovalle già a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Tra esse la cartiera “Sertorio” (che, dopo alcuni cambi di proprietà e denominazione, continuerà la sua attività fino agli anni Ottanta), lo jutificio “De Fernex”, gli jutifici “Prever” (con quattro stabilimenti tra Giaveno e Coazze) e “Moda”, la cartiera “Reguzzoni”. Tutte queste industrie si erano insediate nella parte bassa del paese, lungo le sponde del Sangone, così da poterne attivamente sfruttare l’energia (anche se alcune di esse, a partire dai primi anni Trenta, si erano collegate alla rete elettrica per evitare di essere condizionate dalla variazioni della portata d’acqua del torrente). Queste industrie davano lavoro complessivamente ad oltre 1500 addetti, in grandissima maggioranza di sesso femminile. Così ricordano la loro esperienza  di lavoro due testimoni: «Sono andata a lavorare in Cartiera da giovanissima, e questa rimase la mia occupazione per trentasette anni; lavoravo otto ore al giorno, ma il salario nei primi tempi non era certo alto»[2], «Dopo essere andata a scuola per tre anni andai a lavorare allo Jutificio De Fernex. Nei primi anni guadagnai una Lira al giorno. Lavorai fianco a fianco con alcune mie familiari e, tutte insieme, per recarci alla fabbrica dovevamo sempre partire all’alba da Cervelli percorrendo a piedi la lunga mulattiera per Sangonetto […]».[3]

  Proprio questa contaminazione tra il tradizionale impiego nell’agricoltura e quello nella nascente industria permisero a Coazze e a tutta la Val Sangone di limitare (almeno parzialmente) il grave problema dello spopolamento causato dall’emigrazione. Se, infatti, fin dall’inizio degli anni Trenta, molte zone montane furono duramente colpite da questo fenomeno e conobbero un notevole decremento demografico, diversamente la Val Sangone riuscì a mantenere pressoché invariato il proprio numero di abitanti (tanto che nel 1943 si ha quasi lo stesso numero di residenti del 1936). Questo non significa, comunque, che la valle non sia stata interessata da fenomeni migratori, soprattutto alcuni decenni prima. Non pochi, infatti,  furono coloro i quali scelsero di emigrare in cerca di lavoro. Il luogo prescelto era, quasi sempre, la vicina Francia (in particolare le regioni della Savoia, della Provenza e del Delfinato) dove era relativamente semplice trovare lavoro come manovale o come minatore.

  La sostanziale stabilità economica creatasi a seguito dello sviluppo industriale favorì anche una certa apertura alla modernità: Torino, distante circa 40 chilometri, era raggiungibile con una tranvia – la cosiddetta «sciönfetta» – con capolinea a Giaveno; iniziavano inoltre a comparire, nelle case di alcuni privilegiati, oggetti di lusso come ad esempio la radio. Tutto questo, però, non aveva alterato i fondamenti della vita contadina sui quali la vita del paese e dei suoi abitanti ancora si basava. Al mantenimento della tradizione aveva contribuito anche il clero locale, estremamente radicato sul territorio (nella sola Coazze vi erano tre parrocchie) influente ed autorevole, che già a partire dalla fine del XIX secolo si era prodigato – tra le altre cose – nella creazione di numerose istituzioni economiche, ricreative e culturali di stampo cattolico. Tra esse la Cooperativa di Consumo (fondata nel 1872), la Lega del Lavoro (1908) che si impegnò anche in alcuni scioperi, la Cooperativa Elettrica (1924), queste ultime due nate grazie all’interessamento del canonico Pio Rolla. A Coazze – nel capoluogo – era parroco dal 1937 don Giovanni Accastello (vice parroco era don Giacomo Zanella), mentre il rettore del Santuario del Selvaggio era don Giuseppe Gianella[4]. A Coazze, inoltre, è anche presente una ristretta ma importante comunità valdese (65 membri professanti secondo le relazioni inviate dal pastore Lo Bue al Sinodo nel periodo 1943-1945) nonché un tempio edificato nel 1878.

  Dal punto di vista politico gli sconvolgimenti sociali portati dal cosiddetto Biennio rosso (1919-1922),  dirompenti in   molte parti  d'Italia, erano arrivati in  Val Sangone in maniera sfumata. L'anticlericalismo che contraddistingueva molte di quelle esperienze (e, più in generale, l'intero movimento operaio) era pressoché assente in valle, dove, come abbiamo visto, larga parte del clero era vicina agli operai ed ai loro bisogni. Comunque, nonostante lo scarso impatto di rottura assunto dalle lotte operaie di quel periodo, iniziò a svilupparsi in Val Sangone una forte tradizione di vicinanza alla sinistra, destinata a perdurare per molto tempo anche nel dopoguerra. A Coazze, in particolare,  vi era una netta predominanza social-comunista ed era stato eletto sindaco il socialista Michele Dovis. Viste queste premesse si possono comprendere lo scarso consenso e, allo stesso tempo, la debole penetrazione all'interno della vita e delle tradizioni dei valligiani ottenute dal fascismo. Come si evince da numerose testimonianze[5] la presenza di elementi vicini al fascismo è scarsissima prima del 1922 ed aumenta di poco a seguito della presa del potere da parte di Mussolini. Dai documenti disponibili risulta come, nel 1936, gli iscritti al P.N.F. nel Comune di Coazze fossero appena 160 (di cui 127 appartenenti al Fascio giovanile) su una popolazione di 3.686 persone. Alla Milizia risultavano iscritte 6 persone, 150 al dopolavoro. Leggendo questi dati si comprende la sostanziale distanza tra i valligiani ed il fascismo – appena attenuata da una discreta presenza giovanile, dovuta più che altro all'indottrinamento scolastico – da molti considerato vicino alle istanze dei ricchi e dei padroni («fascisti erano quelli che avevano i soldi e volevano comandare»[6] ricorda un testimone). Anche la guerra d'Etiopia e la successiva proclamazione dell'impero furono seguite con sostanziale indifferenza e solo alcune isolate imprese (come quelle aviatorie di Italo Balbo) portarono un po' di entusiamo tra la popolazione.

  Come podestà di Coazze fu nominato Luigi Rabajoli, un ingegnere veterano della Grande Guerra e dirigente della cartiera “Sertorio”. A Giaveno ottennero la carica dapprima Enrico Tarizzo e – subito dopo lo scoppio della guerra – Giuseppe Zanolli, ex ufficiale dei Carabinieri di origini pavesi già dirigente della cartiera “Reguzzoni”.  Sia quest'ultimo sia Rabajoli non furono mai troppo mal visti dalla popolazione e, anzi, durante la Resistenza, il podestà di Giaveno rivestirà un importante ruolo di mediazione tra i nazi-fascisti e le forze partigiane, impegnandosi anche nella redazione di un diario (oggi conservato in copia manoscritta presso l'Istituto Storico della Resistenza di Torino) venendo infine eletto primo sindaco di Giaveno nel 1951. Nonostante la diffidenza con la quale il fascismo era visto dai valligiani non si può   certo parlare, per la Val Sangone, di un antifascismo consapevole o di una reale opposizione al regime ma più che altro, come detto, di un'estraneità ai miti fascisti  (una sorta di «antifascismo esistenziale» come lo ha definito Gianni Oliva). Questi sentimenti sono però destinati ad un repentino cambiamento dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ed è in particolare a partire dal giugno 1940 che questo «antifascismo esistenziale» inizia a trasformarsi in un deciso fenomeno di rottura con il regime, arrivando poi alla maturazione completa durante i venti mesi della Resistenza. La dichiarazione di guerra del 10 giugno a Francia e Gran Bretagna colpì con forza gli abitanti della valle. Sulla matrice tendenzialmente pacifista dei valligiani si inseriva ora un timore diffuso verso le problematiche che il conflitto avrebbe portato con sé (mobilitazione dei giovani, minori introiti commerciali, ristrettezze alimentari ecc.), timore aumentato anche dal ricordo della Grande Guerra ancora ben presente in molti. In secondo luogo la dichiarazione di guerra alla Francia – importante sbocco per l’emigrazione piemontese fino dalla seconda metà dell’Ottocento nonché uno dei principali referenti commerciali della valle – e la successiva sconfitta dei transalpini avevano suscitato molte reazioni contribuendo a rafforzare il già radicato sentimento filo-francese. Diversamente l’alleanza con la Germania nazionalsocialista era vista con sospetto, sia per la lontananza geografica e culturale con i tedeschi sia per i ricordi legati alla Prima Guerra Mondiale «i tedeschi sono sempre stati contro di noi. Ci avevano fatto la guerra, volevano Trento e Trieste, e adesso Mussolini voleva invece combattere con loro»[7].

  Per cercare di far fronte allo smarrimento provocato da questi eventi, i coazzesi sentirono il bisogno di riunirsi tra loro. La chiesa era il luogo dove si poteva cercare di esorcizzare – attraverso la preghiera – le preoccupazioni ed i malesseri portati dalla guerra, la comunità quindi «si raccoglieva attorno ai suoi valori più tradizionali, in uno spontaneo fiorire di religiosità: al «male» della guerra si contrapponeva il «bene» della devozione, al pericolo della morte il sacrificio della penitenza»[8].

  A poco a poco gli sconvolgimenti provocati dall’entrata in guerra iniziarono a farsi sentire anche nelle questioni di vita quotidiana, i beni alimentari di prima necessità cominciano a scarseggiare mentre quelli più di lusso come l’olio, il caffé o lo zucchero diventano introvabili. Anche la farina bianca, indispensabile per la preparazione di numerosi cibi, diviene di difficile reperibilità (spesso per procurarsela bisognava recarsi in pianura) tanto che proprio in questo periodo compare il cosiddetto «pane nero» preparato con farina di segale integrale, meno costosa e più facile da trovare. Le famiglie contadine, comunque, avvertirono queste ristrettezze alimentari in modo meno drammatico rispetto a quelle operaie: la possibilità di coltivare un piccolo appezzamento di terreno o di avere un orto rendeva la situazione un po’ meno problematica, anche se ciò non serviva ad evitare che – al razionamento dei viveri – seguisse inevitabilmente la distribuzione delle tessere annonarie (reintrodotte nel 1941 e che non scomparvero fino al giugno 1949). Allo stesso tempo, siccome la quantità di cibo prelevabile tramite la tessera era scarsa, si affermò la borsa nera  dove venivano  venduti beni  alimentari a  prezzi  altissimi e quindi alla portata soltanto di pochi privilegiati.

  Comunque, seppure in queste difficili condizioni e nonostante l’arrivo di notizie sempre più negative sull’andamento della guerra, la vita dei valligiani proseguì  abbastanza regolarmente fino quasi alle fine del 1942. A partire dal mese di novembre, infatti, i bombardamenti delle forze anglo-americane su Torino si fecero molto più frequenti e distruttivi (solo tra il 19 novembre ed il 9 dicembre si contarono ben cinque incursioni aeree) tanto da costringere molti abitanti del capoluogo piemontese a prendere la non facile decisione di abbandonare le proprie abitazioni per trasferirsi temporaneamente in luoghi più tranquilli, al riparo dalle bombe. Alcuni di loro scelsero di sfollare nelle campagne, altri in zone montane e, tra questi ultimi, non furono pochi coloro i quali scelsero proprio la Val Sangone. Tra questi vi erano sia quei villeggianti abituali che, benestanti, possedevano già una casa in zona sia numerosi altri sfollati che, invece, pur non avendo legami con la valle, la scelsero per le sue favorevoli caratteristiche di logistica (relativa vicinanza con Torino, buona rete di comunicazioni).

 

 

  Secondo i dati disponibili[9], all’inizio di luglio del 1943, si contavano in Val Sangone oltre 15.000 sfollati su una popolazione complessiva di circa 40.000 abitanti. Il Comune che ne ospitava il maggior numero (5.045) era quello di Giaveno, seguito da Piossasco e Trana, che, a loro volta, ne contavano più di 2.000. Ovviamente questo repentino aumento di popolazione contribuì ad aggravare la crisi alimentare già in atto dall’inizio della guerra, contribuendo a razionare ulteriormente le scarse quantità di generi alimentari disponibili. Nonostante questo, comunque, gli sfollati furono accolti generalmente bene dai valligiani, spinti sia da un sentimento di umana solidarietà verso quelle persone disagiate nonché dalla possibilità di ottenere un piccolo guadagno dalla loro presenza, affittando ad alcuni di essi delle stanze oppure vendendogli degli alimenti. A Coazze (dove erano presenti 1.436 sfollati, circa il 40% della popolazione) numerosissimi furono gli abitanti che si resero disponibili ad ospitare uno o più sfollati: «queste persone vennero ospitate volentieri dai coazzesi, nessuno si rifiutò mai di accoglierne qualcuna, quando l’emergenza lo impose. Noi abitavamo a Ruadamonte e la mia famiglia ospitò due coniugi di mezza età, senza figli, i signori Crosa […]».[10] Bisogna però sottolineare che, soprattutto per le fasce economicamente più deboli, il fenomeno dello sfollamento presentò numerosi aspetti negativi, peggiorando le già precarie condizioni di vita: «a noi lo sfollamento portava solo comunque dei grossi guai e nessun vantaggio, perché voi capite che se c’è da dividere poco e siamo in tanti a dividere […]» ricorda una testimone.[11]

  Dopo oltre tre anni di guerra il 1943 fu l’anno della svolta, un anno costellato di avvenimenti di portata storica per l’Italia. Il 5 marzo, negli stabilimenti FIAT di Mirafiori, vengono proclamati i primi scioperi in venti anni di regime. A richieste di tipo sociale (aumento del salario, riduzione dell’orario di lavoro ecc.) si aggiungono anche richieste più specificatamente “politiche” come la liberazione dei militanti antifascisti incarcerati. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che – con l’esito positivo degli scioperi torinesi e dei numerosi altri che seguiranno in tutto il nord Italia – risulterà preparazione decisiva per i futuri avvenimenti resistenziali attraverso la creazione di una prima, seppur basilare, organizzazione nel movimento antifascista. 

  Il 25 luglio Mussolini, messo in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo, viene fatto arrestare dal re Vittorio Emanuele III che nomina come nuovo capo del governo il generale Pietro Badoglio. Questa notizia, annunciata in serata attraverso un comunicato radio (in cui si parla di dimissioni spontanee del Duce), viene accolta con grande entusiasmo in tutta Italia. Infatti, nonostante in un successivo comunicato Badoglio affermi che la guerra sarebbe continuata, nell’immaginario collettivo la caduta di Mussolini e del fascismo corrispondeva alla fine del conflitto. Anche in Val Sangone, come nel resto del Paese, questi eventi furono inizialmente accolti con grande entusiasmo e numerosi testimoni ricordano festeggiamenti e scene di giubilo in tutta la valle. Questo entusiasmo fu però di breve durata. Dopo pochi giorni, infatti, risultava ormai chiaro che la tanto agognata pace non sarebbe arrivata. Il governo Badoglio – il cosiddetto “governo dei quarantacinque giorni” – con la sua scarsa credibilità  ed i suoi provvedimenti impopolari non riuscì certo a migliorare le cose e, anzi, quando l’8 settembre venne annunciata l’entrata in vigore dell’armistizio con gli anglo-americani firmato alcuni giorni prima a Cassibile dal generale Giuseppe Castellano per conto di Badoglio (che, intanto, stava lasciando Roma con il sovrano e la famiglia reale), era ormai chiaro che esso non avrebbe portato la pace – nonostante molti lo avessero interpretato proprio in questo senso – ma che, al contrario, avrebbe aperto indeterminati ed inquietanti scenari per il futuro.

  La prima conseguenza dell’armistizio fu la dissoluzione del regio esercito e lo sbandamento dei suoi soldati, lasciati senza ordini precisi. Molti dei combattenti impegnati al fronte vengono rastrellati dai tedeschi e condotti in Germania, dove, alcuni di essi, lì trattenuti come internati militari (I.M.I.), svilupperanno importanti atteggiamenti di resistenza passiva. Coloro i quali non vengono catturati, invece, cercano – tra molte difficoltà – di raggiungere i propri luoghi di origine. Spesso molti di essi, proprio per evitare di essere catturati, cercano rifugio in zone più isolate (nelle vallate alpine o appenniniche) dove possono trovare un iniziale riparo da tedeschi e fascisti.

  Allo stesso modo che in altre zone montane, anche in Val Sangone, subito dopo l’8 settembre, iniziarono ad arrivare i primi soldati sbandati. Come già avvenuto con gli sfollati, anche questa volta gli abitanti della valle non esitarono a mostrare la propria solidarietà prodigandosi nell’aiutarli e nel proteggerli (donandogli cibo e vestiario oppure offrendogli ospitalità), mossi anche da una sorta di identificazione di questi giovani con i propri figli o mariti dispersi sui diversi fronti di guerra. Un abitante di Coazze così testimonia: «Rammento che dove abitavo insieme alla mia famiglia, in cinque o sei giorni arrivarono una ventina di sbandati. Fummo lieti di aiutarli, nessuno si è mai rifiutato di farlo».[12]

  La provenienza dei militari sbandati è varia: la maggior parte di essi sono piemontesi – e tra questi non sono pochi i nativi della Val Sangone – ma un numero consistente è originario delle altre regioni italiane, in particolare di quelle del Centro e del Sud Italia (soprattutto Sicilia e Calabria). Accanto a  questi giungono in valle anche numerosi soldati stranieri – in particolare cecoslovacchi e russi – che saranno tra i primi ad entrare nelle fila della Resistenza.   

  Tra i militari che giungono in Val Sangone dopo l’8 settembre vi anche un maggiore del corpo degli Alpini, Luigi Milano, destinato a diventare una delle più importanti figure della Resistenza locale nonché il primo comandante dei partigiani della valle. Nato nel 1909 a Lanciano (Chieti),[13] Luigi Milano è figlio di Francesco – professore e storico – e di Luigia Breber. Dopo il conseguimento del diploma di maturità classica entra come allievo ufficiale nella Reale Accademia di Fanteria e Cavalleria di Modena e, alla fine dei corsi propedeutici e del biennio della Scuola di Applicazione, il 7 luglio 1931 Milano è assegnato al 7^ reggimento Alpini con il grado di sottotenente. Nel 1935 parte volontario per l’Africa Orientale dove, dopo una permanenza di tre anni, viene rimpatriato e decorato con la Croce di Guerra al valor militare. Dopo lo scoppio della guerra Milano è impegnato dapprima in Francia (dove però rimarrà nelle retrovie e non prenderà parte ai combattimenti) e successivamente in Albania, dove viene ferito ed è quindi costretto a ritornare in Italia e ricoverato all’ospedale di Imola. Dopo alcuni mesi, ripresosi completamente, viene assegnato al battaglione «Val Chisone» ed inviato in Montenegro (dove avrà ai suoi ordini, come sottotenenti, Nino Criscuolo e Sergio De Vitis futuri importanti elementi della Resistenza in Val Sangone) dove rimarrà fino alla fine del 1942 ed otterrà la promozione a maggiore. Nel luglio del 1943 il maggiore Milano si trova in Liguria, dapprima a Genova (dove, con il suo battaglione, è assegnato al mantenimento dell’ordine pubblico) e successivamente nell’entroterra di La Spezia. Si trova qui anche l’8 settembre, e, nei giorni successivi all’armistizio decide di sciogliere il proprio reparto e di lasciare i suoi uomini liberi di scegliere se ritornare a casa oppure se iniziare una nuova lotta contro i tedeschi. Ai volontari indica di seguirlo in provincia di Torino, nella zona di Giaveno e ad Avigliana, dove prima della guerra aveva intessuto numerosi rapporti di amicizia (su tutti quello con Italo Allais, proprietario dell’albergo “Lago Grande” ad Avigliana). Il 12 settembre Milano, affiancato da una decina di uomini, giunge ad Avigliana, e si sistema presso l’albergo dell’amico che, da quel momento, diventerà importante riferimento per i contatti con la pianura. Due giorni dopo il maggiore ed i suoi uomini si spostano nella zona di Monterossino, sulle alture di Giaveno,   dove iniziano a reclutare i primi soldati sbandati. Sarà proprio l’esperienza militare di Milano a risultare decisiva nell’organizzazione del nascente movimento resistenziale in Val Sangone, che, in po-co tempo, verrà trasformato da piccolo gruppo poco numeroso e male organizzato ad efficiente organizzazione militare guadagnandosi così fama e rispetto tra gli abitanti della valle. In questo primo periodo la politicizzazione della Resistenza locale è ancora molto debole, e lo stesso Luigi Milano – non politicamente schierato -preferisce essere autonomo rispetto ai partiti politici, al fine poter sviluppare al meglio la lotta ai nazi-fascisti sul piano militare, quello a cui è più interessato. Un aneddoto esemplifica al meglio questo atteggiamento del maggiore: secondo quanto raccontato dal partigiano Bartolomeo Romano, ad uno sconosciuto che un giorno gli si presentò davanti offrendosi come commissario politico il maggiore avrebbe risposto «non abbiamo bisogno di nessun commissario politico, qui la politica non c’entra. Abbiamo un tricolore e basta».[14]

   Tra settembre ed ottobre arrivarono in Val Sangone numerosissimi militari sbandati che avevano avuto notizia della formazione delle prime bande nella zona. Tra questi c’è Eugenio Fassino, uno studente universitario originario di Avigliana, che solo per un caso fortuito (la mancanza di aerei) era potuto rimanere a casa evitando l’arruolamento al corso allievi ufficiali piloti di complemento a Pescara. All’arrivo dei tedeschi in città, assieme ad alcuni compagni, decide di rifugiarsi in montagna. Fassino, come molti altri giovani intellettuali cresciuti sotto il fascismo, ha in questo periodo un’idea ancora molto vaga dell’antifascismo che maturerà gradualmente soltanto durante i venti mesi della lotta partigiana. Tra i primi ad entrare nelle fila della Resistenza locale vi sono anche degli ufficiali di carriera. Carlo Asteggiano, un cuneese classe 1921, già sottotenente nella divisione alpina «Punteria» di stanza in Francia,  nonché Giovanni (Nino) Criscuolo e Sergio De Vitis, che avevano raggiunto la valle al seguito del maggiore Milano già loro comandante nel battaglione «Val Chisone». Tra gli sbandati che arrivano in valle in questo periodo c’è anche Giulio Nicoletta (che vi giunge insieme al fratello maggiore Franco), che diverrà una delle figure di maggior spicco della Resistenza locale. Nato a Crotone nel 1921 e con una cultura liceale alle spalle, è sottotenente dei carristi a Vercelli. All’inizio della guerra convinto interventista, con il passare dei mesi Nicoletta inizia a maturare dei dubbi sia sulla liceità del conflitto sia sul fascismo stesso e sulle sue imposizioni dogmatiche. Anche il fratello Franco, che come brigadiere della Guardia di Finanza si era trovato a combattere in Jugoslavia contro i partigiani di Tito ed aveva visto i brutali metodi usati dall’esercito italiano per sradicare le bande, profondamente provato da quella esperienza, iniziava a prendere le distanze dal regime. All’indomani dell’8 settembre i due, impossibilitati come moltissimi altri militari del Sud a fare ritorno a casa, decidono di continuare la guerra  contro i tedeschi spostandosi verso la montagna ed aggregandosi alla formazione del maggiore Milano. Inizialmente i fratelli Nicoletta fanno sosta a Bruino dove si fermano una decina di giorni riuscendo a reclutare un gruppo di giovani del luogo disposti a seguirli in montagna. Il 23 settembre il gruppo risale la valle e, cercando di evitare i centri abitati, raggiunge la borgata di Indiritto dove – alla presenza del maggiore Milano – i fratelli Nicoletta ed i loro compagni entrano nelle fila della Resistenza.

  Quello stesso giorno le truppe tedesche (giunte a Giaveno il 19 settembre) compiono, sebbene il  podestà Zanolli tenti di scongiurare un’azione di forza, il primo rastrellamento in valle. A sera si conteranno due morti, le prime vittime della Resistenza in Val Sangone. Sono Maurizio Guglielmino, un pittore giavenese ucciso da una raffica di mitra presso il suo villino al colletto del Forno, ed Evelina Ostorero una diciottenne sordomuta di Forno che subì la stessa sorte perché non si era fermata di fronte ad una pattuglia[15]. Si tratta di due uccisioni quasi certamente casuali (Guglielmino, nonostante avesse simpatie socialiste, non aveva alcun contatto con i partigiani) che avevano solamente l’obiettivo di spargere il terrore tra la popolazione ed indurla a non aiutare i «ribelli». Invece, contrariamente a quanto auspicato dai tedeschi, questi barbari episodi non fecero altro che confermare e consolidare quei sentimenti di solidarietà e vicinanza ai partigiani già insiti nei valligiani. 

 

 

  La presenza delle truppe nazi-fasciste in valle (sebbene il rastrellamento del 23 settembre non avesse coinvolto direttamente i partigiani) divenne anche l’occasione per fare una prima selezione nei ranghi della Resistenza. Bisognava infatti capire quali fossero le reali intenzioni di chi era salito in montagna dopo l’8 settembre, iniziando a fare una distinzione fra quelli si erano rifugiati lì solamente per avere un riparo temporaneo che gli consentisse di sfuggire alla cattura nell’attesa di riprendere la via di casa, e gli altri che avevano scelto di intraprendere la lotta partigiana spinti da reali motivazioni. Bisognava inoltre vagliare chi di loro fosse in possesso di quelle qualità fisiche e morali (nonché di una notevole capacità di adattamento) indispensabili per sopportare la dura vita in montagna ed i combattimenti con il nemico che presto sarebbero arrivati e che, certamente, sarebbero stati differenti da quelli che molti di essi avevano sperimentato con l’esercito regolare. I primi a tornare a valle sono alcuni ufficiali che avevano seguito il maggiore Milano dopo l’8 settembre e che, pur in quella precaria situazione, avevano cercato di ricreare l’ambiente dell’esercito regio con i suoi rapporti gerarchici e le sue iniquità. Il giorno del rastrellamento, intimoriti dall’avvicinamento della colonna tedesca, avevano deciso di darsi alla fuga, invitando anche i loro uomini a fare lo stesso.  Scrive Eugenio Fassino nel suo diario: «all’accampamento regna la confusione e l’orgasmo, gli ufficiali non si sono dimostrati all’altezza della situazione: uno, saputo che c’erano i tedeschi, ha detto ai ragazzi “non possiamo resistere, andiamocene via”. Il tenente Chiodi è sparito fregando il mitra a Ferruccio, qualcuno ha fregato gli zaini, le mie maglie le ha prese il tenente di prima»[16]. Sia Chiodi che un altro tenente, Colombo, non faranno più ritorno in Val Sangone.

  Le fila partigiane, intanto, si erano ulteriormente ingrossate accogliendo nuove leve, tra le quali numerosi giovani della valle. A seguito di questo aumento numerico (si contano circa duecento uomini ad inizio ottobre) per evitare di essere facilmente bersaglio di rappresaglie ed attacchi, il maggiore Milano decise dividere i propri uomini in tre formazioni, dislocandole rispettivamente al Ciargiour (con a comando lo stesso maggiore), al Palè (con Giulio Nicoletta ed Eugenio Fassino) e a borgata Dogheria (con gli ufficiali carristi Cantelli e Bertolani). Anche il comando viene trasferito, a borgata Indiritto. Da queste prime decisioni di Milano si evidenzia subito uno dei caratteri distintivi dell’esperienza resistenziale (non solo in Val Sangone) come esperienza di democrazia concreta e spontanea. All’obbedienza gerarchica, tratto distintivo del fascismo, si sostituiva una diversa concezione sociale dove l’autorità e l’autorevolezza del singolo non provenivano più da un grado o da un titolo bensì dalle capacità dimostrate sul campo. Ricorda un testimone: «non era come in guerra, dove c’è chi sta dietro e chi va avanti e farsi ammazzare. Lì contavamo tutti uguali, né più né meno».[17] E Giulio Nicoletta aggiunge «quando mi destinò al Palè, un paio d’ore dopo la mia presentazione, [Milano] non mi disse “vai a comandare il gruppo”, ma mi chiarì subito le idee “vai al Palè e datti da fare”, quindi non aveva chiusure da casta militare».[18]

  In questo stesso periodo iniziavano anche i primi contatti con personalità della società civile della zona. Occorreva infatti individuare utili punti di riferimento per il movimento partigiano nonché soggetti in grado di fornire aiuti economici al fine di garantire la sopravvivenza delle bande. Un primo incontro con il podestà di Giaveno Zanolli si conclude – secondo quanto scrive lo stesso funzionario nel suo diario – con un accordo condiviso su tutti i punti esposti dal maggiore Milano. Esito positivo ha pure un successivo abboccamento fatto con Guido Teppati, un notaio torinese antifascista che dopo l’8 settembre si era rifugiato a Giaveno, dove – pur continuando ad esercitare la sua professione – non aveva esitato ad aiutare, insieme alla moglie Mimì, gli sbandati donando loro cibo e vestiario. Figura importante è anche Enrico Valobra, un industriale torinese di religione ebraica attivo nel settore dell’abbigliamento che si trovava a Coazze come sfollato. Valobra non esiterà ad aiutare la Resistenza concedendo al maggiore Milano l’utilizzo di una baita di sua proprietà al Ciargiour (la prima sede del comando partigiano in valle). Anche alcuni esponenti del clero locale venivano contattati. Il parroco di Avigliana, don Menzio, forniva al movimento la considerevole somma di 150.000 lire.

  Accanto a questi contatti con importanti personalità che potessero fornire aiuti economici e logistici, Milano ed i suoi uomini si trovarono davanti ad un’altra fondamentale necessità: la mancanza di armamenti. Al momento del loro arrivo in Val Sangone come soldati sbandati, i futuri partigiani erano poco e male armati (qualche pistola, al limite dei fucili) e lo stesso maggiore era giunto ad Avigliana con un gruppo di uomini praticamente senza armi. Parziale eccezione per i tenenti carristi Umberto Cantelli ed Oliviero Bertolani giunti in valle con i loro mezzi corazzati. Proprio il possesso di questi due carri armati aveva fatto nascere leggende sul conto dei partigiani e lo stesso Giulio Nicoletta, ancora prima di entrare nei ranghi della Resistenza, aveva sentito voci  riguardanti «un reparto regolare, che era attestato nella zona di Forno, al comando di un maggiore, che disponeva di mezzi corazzati e dove si raccoglievano gli sbandati».[19] Ovviamente non era così ed i due carri armati, che comunque sarebbero stati di difficile manovrabilità in un contesto di guerra partigiana in montagna, non vennero mai usati in combattimento perché, scoperti dai tedeschi nel corso del rastrellamento del 23 settembre, furono da questi disattivati e fatti scendere nel greto del Sangone rendendoli così inutilizzabili. Non è un caso, quindi, che la prima azione di una certa rilevanza compiuta dai partigiani della Val Sangone fosse destinata ad un luogo dove ci si poteva facilmente procurare delle armi: la caserma dei carabinieri di Avigliana. Il «colpo», raccontato nei particolari da Eugenio Fassino nel suo diario, fruttava dieci moschetti, otto fucili mitragliatori, giberne, caricatori, cassette di munizioni e bombe a mano. A questo punto era ormai chiaro anche ai tedeschi che il nascente movimento resistenziale ed in particolare il maggiore Milano (la figura più autorevole che, con la sua esperienza e con il suo carisma, del movimento era elemento portante) era un problema non di poco conto.

  La sera del 22 ottobre il maggiore Milano si trova ad Avigliana, presso l’albergo “Lago Grande” di proprietà dell’amico Italo Allais. Con lui, oltre ad Allais ed alla moglie, la sua fidanzata Elia Cargnelutti ed alcuni imprenditori sfollati lì convocati dallo stesso maggiore per discutere su eventuali finanziamenti al movimento. Verso le 21.30, si sentono dei rumori provenire dall’esterno, Milano fa appena in tempo a rifugiarsi in cantina che d’improvviso la porta si spalanca ed entrano un gruppo di tedeschi seguiti da un interprete. Quest’ultimo chiede dove si trovi il maggiore Milano e, al silenzio dei presenti, i soldati portano fuori due di loro sparando dei colpi di avvertimento e minacciando anche di uccidere la moglie ed i figli di Allais  se non avessero rivelato dove si nascondesse il maggiore. Sentite queste ultime minacce Milano decide di consegnarsi e viene arrestato. Eugenio Fassino, uscito dall’albergo pochi attimi prima dell’arrivo dei tedeschi, riesce a sottrarsi alla cattura nascondendosi bocconi sulla riva del lago. Dopo un brutale pestaggio il prigioniero viene condotto in carcere a Torino dove subirà numerose torture (fra cui la compressione del torace con due piastre metalliche che gli procurerà l’introflessione di tre costole ed una cancrena ai polmoni) che lo ridurranno quasi in fin di vita. Ritenuto ormai inoffensivo viene rilasciato nell’aprile 1944 ma dopo pochi mesi, a causa di una tubercolosi polmonare, deve essere ricoverato presso il sanatorio di Cuasso al Monte, vicino a Varese. Completamente minato nel fisico Luigi Milano trascorrerà gli ultimi anni di vita accanto alla moglie Elia (sposata nel settembre 1945) senza più riuscire a riprendersi. Morirà a Roma il 4 giugno 1951 all’età di quarantuno anni. L’amico Italo Allais (arrestato qualche giorno dopo il maggiore e  rilasciato nel marzo 1944) gli rimarrà sempre vicino e – nel corso degli anni – i due si scambieranno una fitta serie di missive.

Nella notte tra il 22 ed il 23 ottobre, intanto, i militari tedeschi si recavano anche a Coazze per arrestare Enrico Valobra, accusato di collaborazionismo con i partigiani. Dopo alcuni mesi di detenzione a Torino, l’industriale verrà condotto nel campo di prigionia di Gusen I dove, internato come prigioniero politico, morirà il 23 marzo 1945.

  Entrambe le azioni (l’arresto di Milano e quello di Valobra) erano evidente frutto di delazione. Nel caso del maggiore il delatore fu identificato con un certo Fossati che, in seguito, verrà arrestato dai partigiani e fucilato come traditore. Il responsabile dell’arresto di Valobra è invece Luigi Beghetti, un finanziere che aveva fatto da staffetta per il maggiore Milano. Dopo la guerra Beghetti, sotto processo anche per crimini commessi in altre regioni, sarà condannato in contumacia a venti anni di reclusione.

  L’arresto del maggiore Milano costituiva un duro colpo per il nascente movimento resistenziale. Il maggiore, grazie al suo carisma ed alla sua notevole esperienza in campo militare, era riuscito in breve tempo a trasformare un eterogeneo gruppo di sbandati in bande organizzate ed efficienti. Ora bisognava trovare qualcuno che, con altrettanta sicurezza ed efficacia, riuscisse a portare avanti il lavoro iniziato da Milano. Certamente non si trattava di un compito facile anche per la scarsità di tempo a disposizione. I tedeschi, infatti, prontamente riorganizzatisi dopo l’armistizio, avevano stanziato numerosi reparti nel fondovalle (Beinasco, Orbassano) ed in Valle di Susa (Avigliana, Sant’Ambrogio, Condove) essendo il comprensorio Susa-Chisone di notevole importanza strategica per i collegamenti con la Francia attraverso i valichi del Monginevro e del Fréjus. I partigiani della Val Sangone – dove era presente un reparto tedesco a Sangano, a difesa della polveriera militare – erano quindi stretti in una tenace morsa dalle truppe nazi-fasciste. 

  È proprio in questa difficile situazione che emergono i nuovi comandanti della vallata, coloro i quali condurranno le brigate fino all’aprile 1945: Giulio e Franco Nicoletta, Nino Criscuolo, Eugenio Fassino, Carlo Asteggiano, Sergio De Vitis. Essi erano stati tutti «nominati» dalle proprie truppe, un ulteriore atto di quel processo di democratizzazione attraverso scelte «dal basso» che fin dai primi giorni di settembre era stato elemento cardine del movimento resistenziale e che aveva segnato un netto distacco dal ventennio fascista e dalla sua ideologia.

  Significativamente i nuovi comandanti sono tutti elementi con una ottima preparazione militare (si tratta di ufficiali di carriera oppure, nel caso dei fratelli Nicoletta, di combattenti dalla notevole esperienza), l’unica eccezione è costituita da Eugenio Fassino. Questi, però, seppure digiuno di conoscenze militari, è dotato di un grande carisma e di una forte personalità. È proprio questo ultimo aspetto (più delle pur importanti capacità in campo militare) a risultare fondamentale nella scelta di un buon comandante. Esso, infatti, doveva possedere capacità organizzative, senso pratico, dinamismo, doveva essere in grado di farsi obbedire e seguire dai proprio uomini. Aspetto non trascurabile era poi l’istruzione: «si trattava anche di spiegare le cose, di farsi capire chiaramente, e allora l’aver studiato finiva per contare, anche se non era determinante». [20]

  A pochi giorni dalla cattura del maggiore Milano i nuovi comandanti della Resistenza sono subito chiamati ad un importante banco di prova. A corto di scorte alimentari e di beni di prima necessità, i partigiani progettano una serie di «colpi» a magazzini e depositi della zona. Eugenio Fassino e Nino Criscuolo prelevano un consistente quantitativo di cuoio e stoffe pesanti da un deposito in Valle di Susa, i fratelli Nicoletta asportano viveri da un magazzino tedesco ad Orbassano e ad Avigliana ci si rifornisce di farina e scarpe. L’azione più importante, però, è quella compiuta congiuntamente da tutti i comandanti (più alcuni uomini fidati, una quindicina in tutto) all’ammasso granario di Orbassano. Qui, scoperti da un gruppo di tedeschi mentre si apprestano a caricare il grano sui camion, sono da questi coinvolti in uno scontro a fuoco nel quale riusciranno ad avere la meglio. Cinque soldati tedeschi vengono uccisi mentre un solo partigiano, Remo Ruscello, viene ferito.

  Intanto, mentre i nuovi comandanti ben figuravano nel primo scontro con il nemico, il CLNRP aveva preso la decisione di inviare in Val Sangone un sostituto del maggiore Milano, il maggiore Torchio (che giungerà effettivamente in valle il 12 novembre prendendo il nome di battaglia di «Verde»). La decisione, ufficialmente motivata per dare continuità all’opera di coordinamento iniziata Milano, nascondeva in realtà la volontà dello stesso Comitato – ed in particolare del generale Operti cui Torchio è vicino – di imporre direttive attendiste al movimento.

  Il 13 novembre, giorno successivo all’arrivo del maggiore Torchio, le truppe tedesche effettuavano un nuovo rastrellamento in valle. Si attribuiva infatti alla pervicace presenza delle bande partigiane il dilagare del fenomeno della renitenza alla leva (un bando repubblicano di chiamata alle armi, scaduto ad inizio mese, era stato un insuccesso). All’alba di quel giorno una autocolonna tedesca giungeva a Coazze prendendo in ostaggio trenta civili e trattenendoli nei locali dell’oratorio parrocchiale. Si dirigevano quindi verso la montagna, nella zona di tra il Ciargiour, borgata Dogheria ed il Palè. I partigiani, provvidenzialmente avvertiti da alcuni valligiani, si danno precipitosamente alla fuga. Il maggiore Torchio si dirigeva verso la pianura non facendo ritorno in valle solo alcuni giorni dopo. Preoccupati da questo nuovo rastrellamento (il primo nel quale erano stati presi degli ostaggi) e convinti che sarebbe durato a lungo, i partigiani decidevano di dividersi: chi ne aveva la possibilità si sarebbe rifugiato in zona, chi non aveva parenti o amici a cui chiedere rifugio si sarebbe invece diretto verso la Valle di Susa. A questo proposito Giulio Nicoletta ricorda: «affrontare i tedeschi non aveva senso, bisognava ritirarsi. Però eravamo convinti che il rastrellamento durasse a lungo, non un solo giorno: pensavamo potesse essere di una settimana, forse più. In fondo i tedeschi ci avevano visti, c’era stato un conflitto a fuoco [tra i fratelli Nicoletta, Eugenio Fassino ed un gruppo di tedeschi], anche se nessuno era stato ferito. La Val Sangone era stretta, non si poteva sfuggire  alle pattuglie per molto tempo. E poi vedevo che alcuni, soprattutto i più giovani, erano impauriti. Allora abbiamo deciso di dividerci (…) ».[21]

  Un gruppo di partigiani (fra i quali vi sono i fratelli Nicoletta) si trasferisce quindi in Valle di Susa, sistemandosi sulle alture di Montebenedetto sopra Villar Focchiardo, dove rimarranno per una ventina di giorni. Ad inizio dicembre, quando la situazione si è stabilizzata, il gruppo fa ritorno in valle ricongiungendosi con i compagni a Ca’ Tessa (sopra l’Indiritto di Coazze). Qui, anche alla luce di quanto avvenuto durante il rastrellamento del 13 novembre, vengono pianificate le strategie per il futuro. Veniva ribadita dai comandanti la necessità della divisione in piccoli gruppi, più gestibili e che sarebbero riusciti a muoversi meglio in caso di attacco. Nascono quindi la banda «Sergio» con a capo Sergio De Vitis (inizialmente con zona di influenza  Ca’ Tessa, più avanti si sposterà nella zona di Forno), la «Nino-Carlo» (comandata da Nino Criscuolo, Carlo Asteggiano ed Eugenio Fassino) che è anche la più numerosa e che agisce nella zona di Moncalarda – Verna ed infine la banda «Nicoletta» guidata da Giulio e Franco Nicoletta. Da questa prima divisione in bande, che sarà mantenuta -seppur con alcuni cambiamenti di denominazione – per quasi tutta la durata dell’esperienza resistenziale, si nota la presenza di bande autonome fra loro guidate da comandanti dall’uguale potere, e, al contrario, la mancanza di una personalità così forte o con una preparazione militare così profonda da imporsi sugli altri. Il maggiore Torchio, infatti, a differenza del suo predecessore Luigi Milano, non possedeva le caratteristiche adatte a comandare una guerra di bande ed anzi, per il suo atteggiamento rinunciatario ed attendista, era inviso ai più ed era ormai solo una presenza simbolica, senza potere alcuno, tollerata solo perché inviata direttamente dal comando militare.

  Nei primi mesi del 1944, intanto, come anche nel resto d’Italia, le fila della Resistenza locale si ingrossavano sensibilmente. Molti giovani delle classi 1923, 1924 e 1925 (chiamati alle armi all’inizio dell’anno) avevano preferito disertare la leva, pur consapevoli di poter rischiare la pena capitale, ed unirsi alle forze partigiane. Molte di queste nuove reclute sono giovani della valle ma, come già avvenuto tra settembre ed ottobre 1943, non mancano anche numerosi elementi provenienti da altre zone (e che, spesso, hanno dei congiunti sfollati proprio in Val Sangone). Tra i nuovi arrivi vi sono anche i fratelli Quazza, Guido (classe 1922) e Giorgio (classe 1924). I due, studenti universitari torinesi e figli dello storico Romolo Quazza, sebbene quasi privi di esperienza militare, avevano aderito fin da subito alla Resistenza, combattendo nel biellese. Nel febbraio del 1944, anche a causa delle difficili condizioni venutesi a creare per i partigiani della zona (numerosi rastrellamenti ed uccisioni), decidono – su indicazione del fratello maggiore Mario – di spostarsi e continuare la lotta di liberazione in Val Sangone. Guido Quazza, nei quindici mesi di permanenza in valle, terrà un diario (pubblicato in volume nel dopoguerra) in cui  giornalmente annota – con minuzioso acume – fatti ed accadimenti della vita partigiana. L’importanza di questo diario è duplice. In primo luogo esso è una rara e significativa testimonianza «diretta» del periodo resistenziale. Secondariamente, ma è questo l’aspetto più importante, vi è la possibilità di scorgere, tra le sue pagine, il processo di maturazione – umana e politica – che viene compiuto dal giovane Quazza durante i venti mesi della Resistenza.  

  Nel suo diario, alle date del 23, 24 e 25 febbraio, Guido Quazza così descrive l’arrivo in Val Sangone: «23 febbraio, martedì. I “rastrellatori” perquisiscono Capomosso, Marchetto, Oretto e la villa Garbaccio-Gili, catturando giovani e incendiando case. Arriva papà, la sera, con la proposta di Mario di andare nelle bande di Val Sangone. Accettiamo io e Giorgio, tra le ansie indicibili di tutti, poiché permane il pericolo della famiglia; ma là saremo più liberi di agire. 24 febbraio, giovedì. Parto alle 5 da casa, salto il muro della stazione di Vallemosso, mi nascondo in un angolo del trenino, evito un controllo alla stazione di Biella e giungo, salvo per miracolo, a Torino. Vedo Paglionica. Alle 18.30 parto per Giaveno. Dormo da Berto [il partigiano Bartolomeo Romano], nella stalla. Porto meco moschetto e coperta. 25 febbraio, venerdì. Attendo dalle 8 alle 17,20 al Caffè Vaj, poi parto in autocarro per Moncalarda, ove parlo con i tenenti Carlo e Nino, capi del gruppo. Dormo sulle foglie con “Balin” e i fratelli Balbo. Buone accoglienza dei partigiani. Grande è il mio entusiasmo per i nuovi compagni, dei quali condivido il desiderio di lottare contro i fascisti e con i quali si sviluppa potentemente un nuovo senso dell’amor patrio, un nuovo spirito di sacrificio. […]».[22]

  La figura più importante che giunge all’inizio del 1944 in Val Sangone è però il marchese Felice Cordero di Pamparato. Torinese, classe 1919, compie gli studi dapprima al Real Collegio di Moncalieri e successivamente frequenta l’Accademia  di Artiglieria e la Scuola di Applicazione. Nel 1943, divenuto ufficiale di artiglieria, viene inviato in Sicilia con il grado di tenente dove è impiegato in prima linea contro le truppe statunitensi del generale Patton. A seguito dell’armistizio si rifugia in Svizzera, ma dopo poco tempo decide – spinto anche da un forte lealismo monarchico frutto dell’educazione militare e famigliare – di rientrare in Italia. La scelta della Val Sangone deriva da legami parentali: la moglie di Cordero di Pamparato, Luciana Rivoira, è infatti figlia di un noto avvocato torinese sfollato a Coazze. Arrivato in valle si unisce, come già avevano fatto i fratelli Quazza, alla banda «Nino-Carlo» prendendo il nome di battaglia di «Campana».

  Tra gli altri arrivi anche alcuni ex appartenenti all’esercito regio (ad esempio i fratelli Tallarico, tenenti di fanteria di origine calabrese, che giungono in valle all’inizio di febbraio), nonché numerosi soldati stranieri – soprattutto russi e cecoslovacchi – spesso ex prigionieri di guerra che disertavano i reparti tedeschi, nei quali erano stati forzatamente inquadrati per unirsi ai partigiani.

  Ma quanti sono i partigiani che operano in Val Sangone nei primi mesi del 1944? Il numero è incerto: secondo Gianni Oliva, all’inizio della primavera, vi sono in valle circa 1.000 tra combattenti e fiancheggiatori (addetti ai collegamenti ed al recupero di informazioni che, spesso, non si trovano in montagna ma continuano a risiedere nelle loro abitazioni), per Guido Quazza – invece – si tratta di meno di 600 unità ai primi di marzo. Comunque, qualunque fosse il numero dei partigiani presenti, è evidente che numerose fossero le difficoltà (logistiche e di approvvigionamento) cui le bande andavano incontro. Per questo, da inizio anno, iniziarono ad intensificarsi gli attacchi a depositi, magazzini, amassi di armi e viveri. Tra i «colpi» principali vi sono l’assalto al magazzino di decentramento FIAT di San Bernardino di Trana, la requisizione – il 7 marzo – di un convoglio carico di materiale bellico destinato alle truppe tedesche effettuato allo scalo ferroviario di Orbassano (tra il bottino anche 132 mortai, però inutilizzabili perché mancanti di munizioni). Numerosi anche gli attacchi mirati all’acquisizione di viveri e generi di prima necessità (il 25 febbraio, ad esempio, vengono prelevati sette quintali di grano dal magazzino vettovagliamento militare di Orbassano, quattro girono prima era stato preso d’assalto il deposito dell’ammasso a Volvera). Accanto a queste azioni non mancavano quelle dirette contro i militi repubblicani o i soldati tedeschi. Il 9 marzo, a Sant’Ambrogio, Eugenio Fassino e tre suoi compagni, sorprendono e catturano cinque soldati repubblicani (tra i quali un maresciallo). L’azione ha vasta eco e addirittura Radio Londra riporta la notizia.[23]

  Ovviamente non tutte le azioni portavano al risultato sperato, ma, nonostante questo, l’operare dei partigiani iniziava a preoccupare seriamente le autorità, tanto che gli stessi dirigenti del Gnr ammettevano – già ad inizio marzo – che ormai i partigiani controllavano l’intera Val Sangone (il presidio nazi-fascista più avanzato si trovava a Sangano). Pur non potendo parlare di zona-libera (mancavano l’organizzazione e le caratteristiche distintive di quelle esperienze, e comunque le truppe tedesche e repubblicane – che in verità avevano sopravvalutato la consistenza delle reali forze partigiane – rimanevano a pochi chilometri) si trattava in ogni modo di una esperienza importante e formativa per gli stessi partigiani. Liberi, almeno temporaneamente, dalla presenza delle truppe nazi-fasciste i partigiani si trovarono subito a dover affrontare un delicato problema: il dilagare della delinquenza comune. Fin dal settembre 1943, infatti, con il venir meno del controllo statale, si era verificato un notevole aumento di fenomeni delinquenziali. La forze dell’ordine presenti in zona – alcuni carabinieri della locale stazione di Giaveno – non erano in numero sufficiente per debellare questo fenomeno, l’amministrazione della giustizia toccava quindi ai partigiani (non era insolito, tra l’altro, che delinquenti comuni compissero razzie e saccheggi facendosi passare per appartenenti alle bande partigiane). La risposta del comando partigiano si dimostrò subito inflessibile. Tali azioni di contrasto – intraprese già a partire da gennaio – si concludevano con l’esecuzione dei colpevoli.     L’azione principale fu quella condotta, tra gennaio e febbraio, contro la banda Martinasso. Il capo della banda, Marcello Martinasso era stato nominato segretario del fascio repubblicano di Trana nel novembre 1943. Il podestà di Giaveno Zanolli, nel suo diario così lo descrive: «il Martinasso è un vero delinquente più volte denunciato ed arrestato per furto e truffe e per diversi altri reati […] sotto l’egida e la garanzia del suo grado di segretario di fascio potrà commettere furti ed abusi contro la popolazione e legalmente non potrà essere né arrestato né denunciato dalla Forza Pubblica».[24] Martinasso ed i suoi uomini avevano compiuto numerosi furti e razzie nelle cascine della zona e si erano anche resi responsabili di pestaggi ai danni di alcuni oppositori. A seguito di due tentativi di cattura non andati a buon fine (nel corso del primo, a metà gennaio, i partigiani erano stati costretti a ritirarsi con due feriti), il 9 febbraio avviene lo scontro decisivo. Un gruppo di uomini guidato da Sergio De Vitis (poi ritornato anzitempo indietro) e dai fratelli Nicoletta – dopo un lungo appostamento – sorprendono Martinasso che, alla guida di un camion, stava ritornando a Trana da Avigliana. Con lui sul mezzo ci sono altre quattro persone. Dopo un breve conflitto a fuoco tutti gli occupanti del veicolo – compreso Marcello Martinasso – vengono uccisi. Tre di queste sono militi repubblicani mentre il quarto è un contadino tranese, Domenico Garola, che si trovava per caso sul camion, avendo chiesto poco prima un passaggio per ritornare a casa. Con la scomparsa della banda Martinasso i principali fenomeni di delinquenza comune erano debellati. 

  Nei primi mesi del 1944, intanto, si era costituito a Giaveno il primo Comitato di Liberazione Nazionale della valle. Tra i membri principali il notaio Guido Teppati del Partito d’Azione, Cesare Daghero del P.C.I., Giuseppe Camilla del PSI, Renato Ricciardi per il Partito Liberale e Achille Tessore  per la Democrazia Cristiana. Numerosi erano poi coloro i quali collaboravano a vario titolo con il comitato. Le personalità più importanti furono certamente Guido Usseglio Mattiet ed Ugo Campagna. Giavenese, classe 1903, Usseglio Mattiet è medico presso l’ospedale «San Giovanni Bosco» di Torino. Fin dal settembre 1943 si impegna per coordinare le attività antifasciste in valle. Nella sua casa, nel centro di Giaveno, vengono ospitate numerose riunioni clandestine. Ugo Campagna, giavenese di origine, nasce a Torino nel 1911. Suò sarà il compito di mantenere i contatti tra i partigiani della valle ed il C.M.R.P. (Comitato Militare Regionale Piemontese)[25].

 

 

  Anche il clero fornisce un contributo importante alla Resistenza, garantendo, fin dal settembre 1943, riparo ed assistenza agli sbandati. Allo stesso modo, dopo la creazione delle prime bande, numerosi ecclesiastici continuano a fornire aiuto e supporto impegnandosi anche – all’occorrenza – in opere di mediazione tra le forze partigiani ed i nazi-fascisti. Alcuni di essi seguivano le bande in qualità di cappellani (ad esempio don Angelo Salassa) altri, come don Giuseppe Marabotto o don Francesco Foglia, affiancavano a questa attività anche una più diretta collaborazione con i partigiani. Marabotto, che era parroco di Thures di Cesana, mandò armi ed esplosivo alle  bande della Val Sangone. Per questo motivo venne arrestato e condannato a morte dal Tribunale per la sicurezza dello Stato, la sentenza non venne eseguita ma don Marabotto rimase comunque in carcere fino all’aprile 1945. Nel dopoguerra raccolse i ricordi della sua esperienza detentiva presso «Le Nuove» nel libro Un prete in galera, pubblicato dall’editore Gribaudo  nel 1953.

    Di notevole importanza, per quanto riguarda l’attività partigiana in valle, anche il contributo di altri esponenti del clero locale come il parroco di Giaveno don Giovanni Crosetto (che, affiancato dai vice parroci don Busso e don Foco, aiuterà prima i soldati sbandati e poi i partigiani, conducendo anche trattative per la liberazione di prigionieri ed ostaggi), quello di Forno di Coazze don Beniamino Mattone oppure don Giovanni Battista Gallo, parroco della frazione Maddalena di Giaveno.

  Significativa, sempre nell’ambito del clero secolare, fu anche l’attività delle suore dell’ospedale civile di Giaveno. Qui, fin dal novembre 1943, era stato creato un reparto segreto (nascosto in un sotterraneo adibito a lavanderia) dove le religiose – mettendo a repentaglio la loro stessa vita – curavano clandestinamente i partigiani. La responsabile del servizio era suor Delfina Petiti e con lei altre sei suore (tra le quali suor Amalia Bianchi, infermiera caposala dell’ospedale). Accanto ad esse operavano anche alcuni medici. Alla gestione della struttura contribuivano gli stessi partigiani portando viveri e medicinali. Nonostante questo, comunque, anche i militi repubblicani venivano abitualmente curati nell’ospedale, infatti, come sottolinea la stessa suor Amalia «noi accettavamo tutti, chi si presentava per assistenza, per medicazioni, per terapie, per consigli. I ragazzi della Repubblica, insomma i fascisti, li avevamo in corsia, mentre i ragazzi della montagna, i partigiani, li avevamo nascosti. Se si trattava solo di medicare, magari i partigiani arrivavano di notte e gli altri, invece, di giorno».[26]

  Particolare attenzione merita anche l’attività svolta, durante la Resistenza, dai membri del clero regolare. Infatti, sebbene la regola dei loro ordini li rendesse più restii ad avere contatti con l’esterno, numerosi di essi si impegnarono in prima persona per aiutare soldati, partigiani e civili. Sul territorio erano presenti all’epoca le monache di clausura della Certosa di San Francesco al Monte (sita in località Mortera, frazione del Comune di Avigliana), nonché i padri rosminiani della la Sacra di San Michele.

  Nella Certosa vivevano circa quaranta monache, ed anche, in un edificio vicino alla clausura, due padri certosini: il padre vicario Dom Raphael, di origine lorena, e Dom Jean-Marie Rush di origine tedesca. Proprio quest’ultimo ricoprirà un ruolo di primo piano, riuscendo a salvare numerosi civili della zona grazie alla sua conoscenza del tedesco ed al suo notevole coraggio. Per ricostruire gli avvenimenti intercorsi duranti gli anni della guerra e della Resistenza risultano di notevole importanza le annotazione presenti negli «Annali» della Certosa, nonché un memoriale scritto in francese da una anonima monaca.[27] Pur trattandosi  di documenti prodotti all’interno di un’abbazia di clausura, e quindi con una visione del mondo esterno inevitabilmente ridotta, attraverso la loro lettura si riesce comunque a comprendere chiaramente il passaggio dalla situazione iniziale della guerra “lontana”, e quasi sconosciuta alla monache, ad una guerra che, pericolosamente e drammaticamente, si faceva di giorno in giorno più “vicina”.

  La Sacra di San Michele, il monumento simbolo del Piemonte, si trova sul monte Pirchiriano nel Comune di Sant’Ambrogio, non troppo distante in linea d’aria dalla Certosa di San Francesco. Il monastero, retto dai rosminiani fin dal 1836, nel periodo preso in esame conta appena sette religiosi fissi. Nell’ottobre del 1943 si aggiungerà ad essi padre Andrea Alotto, arrivato come nuovo rettore. Uomo dalla forte personalità, Alotto (che rimarrà in loco fino al 1992)  rivestirà un ruolo di primo piano soprattutto nei tragici giorni del rastrellamento nazi-fascista del maggio 1944. Come già per la Certosa della Mortera, anche le fonti informative sulle vicende belliche che coinvolgono la Sacra di San Michele provengono da documenti autografi dei religiosi. Grande importanza ha il «Diario della Casa», un diario giornaliero redatto dai monaci novizi in cui venivano sinteticamente appuntati i principali accadimenti che riguardavano il monastero (e non solo). Il tono del «Diario», trattandosi di un documento “ufficiale”, è però abbastanza reticente nel descrivere i fatti (non si fa menzione, ad esempio, dei numerosi antifascisti che venivano abilmente nascosti nei locali della Sacra)[28]. Nel maggio 1944, a seguito del rastrellamento nazi-fascista alla Sacra e del successivo bombardamento della attigua borgata di San Pietro, padre Alotto incaricò due giovani novizi (Antonio Riboldi[29] e Giovanni Lever) di raccontare, nei particolari ed in modo veritiero, l’accaduto. Il testo (della cui utilità il rettore si convinse anche a seguito di alcuni articoli di stampa in cui si accusavano i religiosi di aver nascosto armi ed esplosivo nel monastero) è contenuto in un fascicoletto dattiloscritto, tenuto inizialmente segreto, che è stato nel dopoguerra allegato al «Diario» ed infine pubblicato integralmente in un volume scritto in ricordo di padre Alotto.[30]

 

 

  Anche la comunità valdese, particolarmente radicata a Coazze, ebbe un ruolo non indifferente durante il periodo 1943-1945. I valdesi, dopo aver ottenuto la libertà di culto nel 1848 grazie a Carlo Alberto, con il passare del tempo vennero dapprima tollerati e poi, in seguito all’avvento del fascismo, progressivamente emarginati (anche se mai perseguitati). Nonostante questo, l’atteggiamento della comunità valdese nei confronti del regime non fu univoco. Molti, sentendosi impotenti di fronte al fascismo, preferirono rifugiarsi nei valori tradizionali, cercando di evitare ogni   possibile conflitto. Qualcuno, però, a  partire  dalla  seconda  metà  degli  anni Trenta,  iniziò ad esprimere posizioni differenti. Soprattutto alcune riviste come Gioventù Cristiana (che, nel 1940, cambiò titolo in L’Appello), pur non invitando apertamente al dissenso, cercarono però di risvegliare nei giovani, attraverso la ricerca teologica, un interesse critico verso i problemi civili e sociali. Grande importanza in questo senso ebbero anche Francesco Lo Bue (pastore presso il tempio di Coazze) e Jacopo Lombardini, classe 1892, un antifascista toscano convertitosi al protestantesimo e divenuto predicatore laico volontario. All’indomani dell’8 settembre molti pastori (nonostante il Sinodo valdese si fosse espresso con molta prudenza) si prodigarono nell’assistere civili e partigiani. Francesco Lo Bue nascose numerosi ricercati e contribuì ad indirizzare molti giovani verso le fila della Resistenza, per questo divenne ricercato e per un certo tempo fu costretto ad abbandonare Coazze per rifugiarsi a Torino. Numerosi furono anche i giovani valdesi che combatterono, e spesso caddero, tra le fila partigiane in Val Sangone (ad esempio Valerio Martoglio, Vitale Cordin o Giovanni Vigna). Comunque l’unico esponente di spicco della comunità valdese ad unirsi concretamente ad una banda partigiana fu il predicatore Lombardini, che dall’ottobre 1943 si unì al cosiddetto «Gruppo del Bagnòou», una banda di partigiani di confessione valdese operante in Val Pellice, con il doppio ruolo di commissario politico (il gruppo era vicino a «Giustizia e Libertà») e di cappellano. Mai impegnato in combattimenti, Jacopo Lombardini fu catturato dai nazi-fascisti il 24 aprile 1944 presso Bobbio Pellice. Morì nel lager di Mauthausen il 25 aprile 1945. Alla figura di Lombardini verrà dedicato, nel 1962, il volume di Salvatore Mastrogiovanni Un protestante nella Resistenza (contenente, tra l’altro, stralci dal diario di Lombardini).

  All’inizio di marzo 1944, intanto, si svolgevano in tutto il nord Italia una nuova serie di scioperi dopo quelli di marzo e di novembre-dicembre dell’anno precedente. La differenza principale con questi ultimi è che questa volta si tratta di uno sciopero generale, il primo in oltre venti anni di regime. Tale aspetto ha molta importanza: infatti, oltre a richieste di aumenti salariali,  lo sciopero del marzo 1944 assumeva una forte valenza politica in quanto venivano ribaditi con forza la necessità di far cessare la deportazione di mano d’opera in Germania, di impedire lo smontaggio dei macchinari e di interrompere la produzione bellica. Per una buona riuscita dello sciopero era necessaria una notevole collaborazione tra i partiti politici (anche se le dimostrazioni furono organizzate e portate avanti soprattutto dal Partito Comunista) e la Resistenza. Anche i partigiani della Val Sangone appoggiarono convintamente lo sciopero generale. Il loro compito, trasmesso dal CLNAI per tramite del CLN di Giaveno e di Ugo Campagna, consisteva nel bloccare le vie d’accesso a Giaveno e Coazze, impedire la circolazione dei mezzi pubblici (in particolare la tranvia della Satti, la cosiddetta «sciönfetta», che collegava la valle con la pianura) e nell’occupare il centralino telefonico di Giaveno così da poter controllare le comunicazioni. Vennero anche istituiti posti di blocco per segnalare eventuali movimenti di truppe tedesche o repubblicane. Anche grazie all’apporto della Resistenza, quindi, lo sciopero del marzo 1944 si rivelò – almeno nelle zone industriali del Piemonte e della Lombardia – un grande successo. Alto il numero degli scioperanti (32.000 circa nella sola Torino), numerosissimi gli stabilimenti che rimasero chiusi (alcuni anche in Val Sangone).

  L’appoggio dei partigiani della valle allo sciopero generale presupponeva delle scelte ideologiche nuove. Se all’indomani dell’8 settembre le prime bande si erano formate spontaneamente sulla scorta di un generico antifascismo, ora, la vicinanza con il movimento operaio, conduceva ad una diversa consapevolezza politica prima totalmente ignorata. Tutto questo, però, almeno per quanto riguarda i partigiani della Val Sangone, non porterà ad una vera è propria politicizzazione delle bande. In valle, dove, negli stessi giorni, il maggiore Torchio era stato sostituito dal tenente di vascello Umberto Paventi detto «Argo», non vi era nessun comandante politicamente schierato a parte il marchese Cordero di Pamparato, convinto monarchico, che però non aveva sulle truppe un ascendente tale da condizionare l’orientamento politico del partigianato di tutta zona. Alcuni stimoli di discussione politica venivano da studenti universitari come Guido Quazza, Ugo Veneziani o Mario Costa – tutti fra i ranghi della banda «Nino-Carlo» – oppure da membri del locale CLN (in particolare Guido Usseglio Mattiet ed il notaio Teppati, entrambi azionisti), ma comunque tutto ciò non contribuì a smuovere le bande dell’apoliticità, che sarà abbandonata solo negli ultimi mesi, ed esclusivamente dal gruppo di Eugenio Fassino e dalla brigata comandata da Guido Usseglio Mattiet.

  In questo stesso periodo avviene anche la prima importante scissione all’interno del movimento partigiano in valle. A seguito di tensioni ed incomprensioni tra i comandanti, infatti, la banda «Nino-Carlo», la più numerosa fra quelle attive nella zona, viene divisa in tre gruppi: il primo mantiene la denominazione originale ed è comandato da Asteggiano e Criscuolo; il secondo ed il terzo diventano rispettivamente banda «Campana» e banda «Genio» e vedono al proprio comando il marchese Cordero di Pamparato ed Eugenio Fassino.

  Continuavano, intanto, le azioni di guerriglia ed i prelievi di armi in pianura. I fatti più importanti, destinati ad avere tragiche ripercussioni, avvengono tra il 30 marzo ed il 3 aprile a Cumiana. Qui, nella giornata del 30, erano arrivati un centinaio di militi del VII battaglione Milizia Armata (le cosiddette SS italiane) comandati da graduati tedeschi. Dopo aver arrestato oltre settanta persone nel corso di un rastrellamento in Val Chisola, effettuato nello stesso giorno, gli uomini della Milizia si fermavano a Cumiana. Nella notte tra il 31 marzo ed il 1° aprile un camion con due partigiani a bordo, diretto all’ammasso di Volvera, viene fermato ad un posto di blocco nei pressi di Cumiana. I due partigiani, però, riescono a sfuggire fortunosamente alla cattura ed uno di essi, risalendo verso la Colletta, riesce ad avvertire i compagni della presenza dei nazi-fascisti. I capi partigiani decidono allora di compiere un’azione fulminea, scendendo il mattino dopo in forze (una sessantina di uomini circa) nella cittadina. Un eventuale blocco della carrozzabile di Cumiana, infatti, sarebbe stato deleterio per i partigiani della Val Sangone perché si trattava dell’unico collegamento tra la valle ed il pinerolese. Dopo aver verificato il  numero di militi presenti nella cittadina (circa quaranta) viene deciso di dividere gli uomini in tre gruppi per accerchiare il nemico nella zona della piazza Vecchia. Mentre la manovra si stava compiendo viene però notato che alcuni degli uomini del presidio stanno salendo su un camion (probabilmente diretti all’Istituto Agrario di Cascine Nuove, dove dovevano passare un periodo di addestramento). Vista questa scena gli uomini di Criscuolo decidono di iniziare a sparare. Il conseguente conflitto a fuoco durerà circa mezz’ora ed alla fine si conteranno due morti tra i partigiani (Andrea Gaido e Lillo Moncada) ed un ferito grave tra i nazi-fascisti che sarebbe deceduto il giorno stesso in ospedale. I partigiani riuscirono comunque ad avere la meglio e a prendere come prigionieri trentadue militi delle SS italiane e due sottufficiali tedeschi che poi vengono condotti in Val Sangone. La rappresaglia sarà immediata: nello stesso pomeriggio del 1° aprile alcuni reparti tedeschi e repubblicani occupano Cumiana, incendiando numerose abitazioni. Centocinquanta persone vengono rastrellate e condotte presso il Collegio salesiano della borgata Cascine Nuove e lì tenuti in ostaggio con la minaccia di una loro uccisione se i partigiani non avessero liberato i prigionieri. A condurre le trattative tra le due parti (in assenza del podestà, Giuseppe Durando, che era fuggito dalla cittadina alcune settimane prima) vi sono il parroco di Cumiana don Felice Pozzo ed il medico condotto Michelangelo Ferrero. L’opera di mediazione si rivela però più difficile del previsto. Ricorda a proposito Giulio Nicoletta: «Non potevamo accettare: noi eravamo disposti a scambiare subito i 34 prigionieri con dei partigiani prigionieri, ma con i civili no. Che cosa c’entravano gli abitanti di Cumiana con lo scontro a fuoco? Eravamo tutti d’accordo a respingere questa richiesta e a fare la nostra controproposta».[31] E Nino Criscuolo puntualizza «accettare quelle condizioni ci sembrava volesse dire rinunciare subito alla guerra contro i tedeschi. Se ogni volta si fossero rivalsi sulla popolazione, non avremmo più potuto combattere in nessun modo».[32] I tedeschi, però, si dimostravano irremovibili ribadendo le loro condizioni: gli ostaggi sarebbero stati uccisi se – entro le ore 18:00 del 3 aprile – i prigionieri nella mani dei partigiani non fossero stati liberati. Di fronte al pericolo concreto dell’esecuzione dei civili, i capi partigiani decisero – a seguito di una lunga e drammatica discussione – di dare via libera ad uno scambio di prigionieri acconsentendo così alle richieste tedesche. Contrariamente a quanto annunciato, però, i tedeschi non rispettano gli accordi e – prima che Giulio Nicoletta ed il dottor Ferrero riescano ad arrivare a Cumiana  e comunicare quanto deciso – cinquantotto ostaggi vengono scelti a caso e condotti alla cascina Riva di Caia, poco fuori dall’abitato  cittadino, per essere fucilati. Solamente sette di loro, grazie a circostanze fortuite, riusciranno a salvarsi. Arrivato alle 18:30 a Cumiana, Giulio Nicoletta viene informato della strage dal stesso comandante del reparto tedesco, il tenente Anton Renninger: «ha abbassato gli occhi e fatto dire all’interprete: “mi spiace, ma gli ostaggi sono già stati fucilati”. Ho pensato fosse un’intimidazione, ma ho visto don Pozzo, appena entrato, che piangeva e allora sono rimasto impietrito. Il tenente ha aggiunto che avevano altri cento ostaggi, ma che ora lo scambio doveva essere trattato direttamente col  loro  generale, Hansen,  che stava a Pinerolo […]». Il giorno successivo Giulio Nicoletta, ancora sconvolto, si reca insieme con Eugenio Fassino presso l’albergo “Campana” di Pinerolo per incontrare il generale Peter Hansen. Questi, pur ammettendo di comprendere le ragioni dei partigiani, ribadisce con assoluta fermezza che se non fossero stati consegnati i trentaquattro prigionieri anche gli altri ostaggi sarebbero stati fucilati. L’accordo veniva trovato ed il 5 aprile i prigionieri (che, venuti a conoscenza della strage, avevano detto di non voler più tornare nei ranghi della Milizia) venivano portati a Cumiana e consegnati ad alcuni ufficiali tedeschi. A sera anche i civili in ostaggio erano liberati. Nei molti anni che sono trascorsi dalla strage, ci si è spesso chiesti quali furono le ragioni di tale gesto e se esso si fosse potuto evitare. Qualcuno ha ipotizzato che i contatti con i tedeschi sarebbero potuti essere più proficui se si fosse interpellato il CLN di Giaveno, oppure se don Pozzo avesse informato l’arcivescovo di Torino cardinal Maurilio Fossati (che venne a conoscenza dei fatti ma solo a strage compiuta). E’ più probabile, comunque, che la strage fosse inevitabile e fosse dovuta ad una precisa strategia di controffensiva messa in atto dai tedeschi in quelle stesse settimane in tutta Italia: il 15 marzo vi fu la strage di Cervarolo, sull’Appennino reggiano, il 25 l’eccidio delle Fosse Ardeatine e numerosi altri episodi sanguinosi. Cumiana ed i suoi dintorni, inoltre, erano considerati base del ribellismo partigiano (ed in effetti nei boschi intorno alla Verna agiva la banda «Nino-Carlo»)[35]

  Nonostante i numerosi attacchi subiti, in tutta Italia, dal movimento resistenziale tra febbraio e marzo, l’offensiva nazi-fascista non aveva avuto l’esito sperato e le bande erano state in grado di riorganizzarsi in breve tempo. L’orrore e lo sdegno suscitato dalle numerose stragi avevano inoltre contribuito ad allontanare ancora di più le popolazioni civili (che di queste stragi erano, spesso, le inermi vittime) dalla Repubblica Sociale e dal fascismo. La cosiddetta «Svolta di Salerno» promossa da Palmiro Togliatti e la conseguente formazione di un governo di unità nazionale, infine, avevano dato ulteriore slancio alla Resistenza. I tedeschi erano quindi consapevoli che, se volevano riconquistare il nord Italia, avrebbero dovuto attuare una violentissima controffensiva nelle zone partigiane al fine di eliminare totalmente i «ribelli». In Piemonte, la prima regione colpita, la controffensiva iniziava già ad aprile e coinvolgeva le valli del cuneese (Val Maira, Varaita, Casotto e, più avanti, la Valle Stura e la Valle Gesso, tra le altre) colpendole duramente. All’inizio di maggio – con il via dell’operazione Habicht – veniva colpita anche la provincia di Torino, e,  all’alba del 10 i nazi-fascisti arrivavano in Val Sangone. Gli uomini impegnati nei rastrellamenti in valle erano circa duemila[36], sia italiani sia tedeschi.

Nonostante l’attacco non fosse certo imprevisto, ed i partigiani stessi fossero stati avvertiti in proposito[37], le proporzioni del rastrellamento e le sue modalità li colsero di sorpresa. Alla mancanza di un comando unitario che garantisse il coordinamento tra le bande si aggiungeva anche una scarsità di armi e munizioni (e a poco era servito un lancio alleato, peraltro modesto, avvenuto il 2 maggio). Un’altra ragione dell’impreparazione delle bande può essere rilevata nella diversa strategia di attacco adottata dai nazi-fascisti in questa occasione. Se, nel corso degli altri rastrellamenti, l’attacco era sempre giunto dalla pianura, questa volta veniva sferrato anche dalle montagne. Tra le truppe chiamate ad intervenire in valle, infatti, vi erano anche numerosi Alpenjager, reparti di sciatori specializzati a combattere in alta montagna, che scendevano in Val Sangone dalla Val Chisone e dal colle della Roussa. Il primo attacco, però, proviene dalla pianura ed investe – nelle prime ore del 10 maggio – la banda «Nino-Carlo», ancora in fase di riorganizzazione dopo la scissione dei gruppi di Cordero di Pamparato e di Eugenio Fassino. Verso le 7:00 i nazi-fascisti raggiungevano in forze il vallone della Maddalena dove si trovavano (assestati tra la borgata Maddalena ed il Pontetto) gli uomini della «Nino-Carlo». In tutta fretta Asteggiano e Criscuolo ordinavano un ripiegamento verso il colle dell’Asino ed il colle del Bes, lasciando una pattuglia di venti partigiani per frenare l’avanzata del nemico. Tra essi vi è anche Guido Quazza, che nel suo diario così ricorda gli eventi di quella giornata: «Alle 7 i tedeschi e i fascisti, venuti per rastrellare la valle (in tutto fra le tre valli, Susa, Sangone, Chisone, pare 10 mila) arrivano a Maddalena con 200 uomini  un carro armato. Io parto da Pontetto di pattuglia col sergente Nicola verso Maddalena: ci grandinano intorno proiettili di mitraglia e di 88. […] salgono verso Pontetto, sempre sparando, e vi giungono verso le 17,30, mentre noi ci difendiamo accanitamente. Dobbiamo ripiegare, privi di munizioni, dopo mezz’ora di lotta tra le pietraie del Pontetto, mentre essi a 50 metri ci gridano “Arrendetevi, non vi spariamo”. […] Alle 19,30 i nemici ripiegano. Noi ci fermiamo la notte 10-11 alle Crocette e alle 4 dell’11 ripieghiamo nei boschi di Merlera.»[38] A sera si contano, solo nel vallone della Maddalena, numerose abitazioni bruciate, una cinquantina di civili condotti presso il comando tedesco a Giaveno (allestito presso villa Garrone), nonché un partigiano della «Nino-Carlo», il ventitreenne veneto Giulio Bazzeato, caduto in combattimento.

  Sempre nella giornata del 10, nelle stesse ore in cui si combatteva tra la Maddalena ed il Pontetto, numerosi soldati appartenti al 617^ battaglione Est (formato per la maggior parte da russi specializzati nella guerra ad alta quota) scendevano dal colle della Roussa verso  la Val Sangone. Gli uomini di  Sergio De Vitis  vengono  sorpresi nel sonno presso l’alpeggio del Sellery inferiore. Svegliati di soprassalto dall’arrivo  del nemico, dal quale non si aspettavano un attacco proveniente dalla montagna, i partigiani sono disorientati sul da farsi. Ad impegnarsi tenacemente per organizzare una strategia difensiva vi sono i due vice-comandati della banda, Pietro “Vecio” Curzel e Sandro Magnone. Quest’ultimo però cadeva – colpito da una pallottola in fronte – mentre si adoperava a soccorrere Giuseppe Falzone, gravemente ferito ad una gamba. Molti partigiani, non riuscendo a trovare un riparo a causa dell’assenza di vegetazione, cercano di salvarsi scappando verso il basso, in direzione di Forno. Non sanno, però, che proprio lì i tedeschi hanno piazzato delle mitragliatrici. Più fortuna hanno coloro i quali decidono di fuggire verso il colle della Roussa. Ricorda a proposito il partigiano Paolo Morena: «Siamo usciti dalle baite del Sellery alla cieca; ci sentivamo accerchiati: io, con altri cinque, mi sono buttato verso il colle della Roussa e mi è andata bene. Molti altri, invece, sono scesi verso il Forno e le mitraglie tedesche erano messe proprio per colpire in quella direzione. Un massacro.»[39] Qualcun’altro tenta di arretrare verso il Sellery superiore. Helios Perlino – partigiano torinese di vent’anni – cerca di coprire la fuga dei compagni aprendo il fuoco con una mitragliatrice ma viene colpito a morte, con lui cadono anche Danilo Fabbro e Dalmazio Carretta. Alla fine della guerra Perlino sarà insignito della Medaglia di bronzo al valor militare alla memoria. Pochi riescono a scampare la massacro, Sergio De Vitis ed alcuni altri si salvano riparando nel vallone della Balma, favoriti anche da un’improvvisa nebbia scesa nel tardo pomeriggio sulla zona. Menzione particolare merita l’eroica azione di Mario Davide, partigiano ventiduenne originario di Piossasco. Davide viene incaricato di far saltare con dell’esplosivo il ponte a Sangonetto così da fermare l’avanzata tedesca verso il vallone del Forno. La sua azione non va però a buon fine a causa, forse, di una spia che aiuta i tedeschi a disinnescare l’esplosivo. Il partigiano però non si dà per vinto «si butta in acqua e riesce a far brillare comunque il ponte con dei fiammiferi. Il crollo non ingente consente comunque ai carri armati nazisti di guadare il torrente. Allora Mario tenta ancora di bloccarne l’avanzata attaccando il carro capocolonna con bombe a mano e una bottiglia di benzina: nell’assalto rimane ferito. Riuscito ancora ad allontanarsi, nel tentativo di raggiungere i compagni, Mario sbaglia strada e viene intercettato in borgata Ruata dove finisce massacrato a colpi di moschetti in viso».[40] A sera si contano dieci partigiani morti e diversi dispersi. La banda «Sergio» è quasi completamente smembrata.

  I fratelli Nicoletta, assieme ad altri sessanta compagni, sono invece sistemati alcune centinaia di metri più a valle, presso villa Sertorio, una palazzina di caccia fatta costruire all’inizio del secolo dalla famiglia omonima, che i partigiani intendevano usare come base strategica. Tra le 4 e le 5 di mattina del 10 maggio anche loro vengono sorpresi nel sonno dall’attacco nazista, giunto quasi in contemporanea a quello compiuto ai danni degli uomini di De Vitis. Svegliati di soprassalto dai primi colpi (uno dei quali uccide la sentinella posta a guardia della villa, il ventiduenne siciliano Liborio Ilardi) Nicoletta ed i suoi uomini si accorgono ben presto della presenza dei soldati nazisti. Uno di essi riesce anche a penetrare all’interno della villa, salvo poi uscirne precipitosamente, dopo essersi reso conto della presenza di numerosi partigiani al piano superiore. Immediatamente si scatena un violento conflitto a fuoco, con i nazisti che sparano ed i partigiani che rispondono dall’interno della palazzina. Giulio Nicoletta, che con un binocolo era riuscito a scorgere i cadaveri al Sellery intuendo che cosa fosse avvenuto, esorta i suoi a non sprecare munizioni e – soprattutto – a rimanere all’interno dell’edificio. La solidità di villa Sertorio (un edificio di due piani, in pietra, e con il tetto ricoperto a «löse») si rivelerà infatti elemento chiave nel favorire la difesa dei partigiani. Verso mezzogiorno, dopo aver subito qualche perdita ed aver provato a colpire la villa con un mortaio di piccolo calibro, gli assalitori allentano il fuoco e si allontanano dalle immediatezze dell’edificio. Un paio di ore più tardi, quando il pericolo sembra cessato, Nicoletta ritiene sia giunta l’ora di provare ad uscire. I partigiani Alfonso Messina e Renato Ruffinatti si offrono per fare da testa di ponte ed avvantaggiare l’uscita dei compagni, i quali, in caso di necessità, avrebbero coperto il loro avanzare con le armi. Ad una cinquantina di metri dalla palazzina i due trovano dapprima il mortaio, evidentemente abbandonato lì dai nazisti, e poi i cadaveri di due soldati. L’arma viene portata all’interno della villa ed anche gli altri partigiani, con Giulio Nicoletta in testa, decidono di uscire dall’edificio per dirigersi verso il bosco. Mentre il gruppo sta attraversando il prato di fronte alla palazzina, uno sparo improvviso – proveniente dalla colonna nazi-fascista che stava risalendo verso Forno – colpisce al collo Alfonso Messina. Vista la gravità della ferita i suoi compagni decidono di riportarlo all’interno della villa. Dopodiché, per evitare un nuovo scontro a fuoco con il nemico, Nicoletta ordina un ripiegamento verso il pendio che si trova alle loro spalle. Messina ricorda così questi tragici momenti:  «Mi portarono nella casa. Dopo un po’, non so quanto, un Tedesco entrò, aveva una pistola in mano. Ero seduto per terra con la schiena contro il muro; alzai le mani e lui mi sparò quattro colpi; uno mi trapassò il muscolo del braccio sinistro. D’istinto mi buttai a faccia in giù coprendomi il viso e la testa con le braccia e col passare dei secondi feci il morto. Non era difficile da far credere; ero in un lago di sangue. Non potevo vedere niente perché la guancia destra era sul pavimento e la sinistra era coperta dalle braccia. Dopo un altro poco una voce chiese “Kaputt?” e la risposta fu “Ja”. Poi fu sparato un quinto colpo di cui ho sentito solo il rumore. […] I tedeschi diedero fuoco alla casa; attesi un po’ – non so quanto – e, quando il fuoco si fece intenso e divenne evidente che la struttura in legno sarebbe crollata me ne andai in cantina.»[41] Messina verrà poi recuperato, ancora vivo ma in gravi condizioni, da Giulio Nicoletta, che era ritornato alla villa con l’intenzione di cercare il corpo dell’amico per darne sepoltura. Essendo ovviamente impossibilitato a camminare, Nicoletta decide di nasconderlo temporaneamente nei boschi affidandolo alle cure di un altro partigiano (forse il collegnese Pierino Maffiodo).  La tragica giornata del 10 maggio conta ancora un altro rastrellamento da parte dei  nazi-fascisti. A farne le spese, questa volta, è la banda «Genio» – comandata da Eugenio Fassino – che opera nella zona tra il colle Braida ed il colle Bione. L’attacco avviene alle prime luci dell’alba e proviene, anche questa volta, dalla montagna. Diversamente dalle altre formazioni, però, la «Genio» è più numerosa e meglio organizzata. Inoltre alcuni plotoni erano stati incaricati di presidiare i colli, pur non avendo previsto un eventuale attacco proveniente da quella direzione. Il primo plotone a venire attaccato è quello di stanza al colle Bione composto da partigiani di Sant’Antonino di Susa. Pur colti di sorpresa gli uomini del gruppo riescono ad organizzare una prima resistenza  e, con l’aiuto di un altro plotone di stanza nella vicina borgata Mamel accorso dopo aver sentito i primi spari, costringono gli aggressori a rifugiarsi nella cappella presente sul colle. Dopo alcune ore, però, avendo scorto numerosi camion tedeschi che risalgono la valle, decidono di ritirarsi e di disperdersi. Alcuni scendono verso borgata Mamel, altri verso borgata Trucco, altri ancora si ritirano verso il colle del Vento ed i Picchi del Pagliaio uniche zone non ancora colpite dai rastrellamenti.

  L’unica banda a non subire perdite significative è la «Campana» – comandata dal marchese Cordero di Pamparato e da Costantino Somaglino detto «Barbetta» – che è assestata presso le prese Franza, zona non toccata dai rastrellatori. A sera, diversamente dalle altre volte, i nazi-fascisti si ritirano ma non abbandonano la zona. Nei due giorni seguenti (11 e 12 maggio) vi saranno ancora scontri con i partigiani in alta valle e dal 13 inizierà l’offensiva contro la popolazione civile, l’altro obiettivo delle operazioni. Già il 10 la borgata Maddalena era stata teatro di un rastrellamento, e, nelle stesse ore, numerose abitazioni delle borgate Fusero, Viretto e Balangero erano state date alle fiamme. Vi erano anche stati arresti di civili considerati fiancheggiatori dei partigiani. Gli arrestati venivano condotti al presidio tedesco di villa Garrone oppure presso palazzo Marchini – attuale sede del Comune di Giaveno – per gli interrogatori. A Coazze i nazi-fascisti si erano invece installati nella prestigiosa villa Prever, mentre la scuola elementare di piazza della Vittoria era stata adibita a carcere. Della difficile situazione della popolazione civile se ne era reso conto anche il podestà di Giaveno Zanolli, il quale, per evitare che venissero presi ostaggi civili, si era offerto lui stesso come unico ostaggio e garante perché nulla accadesse alle truppe germaniche durante la loro permanenza in valle. In quegli stessi giorni i tedeschi avevano anche chiesto a Zanolli – secondo quanto afferma egli stesso nel suo diario – di occuparsi, oltre che del Comune di Giaveno, del quale era podestà, anche di quello di Coazze. Qui, infatti, la carica era vacante in quanto Luigi Rabajoli aveva già da alcuni mesi rassegnato le dimissioni[42] ed al suo posto erano stati  nominati, a   svolgerne le   mansioni come   commissari  prefettizi,   dapprima il conte Alessandro Pinelli (dal 25 settembre 1943[43]) e successivamente Giuseppe Giua (funzionario di lungo corso, già nominato Commissario ad Avigliana), peraltro mai presentatisi.

 

 

  Gli episodi di violenza contro i civili, intanto, si moltiplicavano. Teresa Vecco in Ostorero viene uccisa da un proiettile rimbalzato su una roccia mentre si trovava con il figlio presso la miniera di Garida dove il marito – insieme con altri abitanti maschi delle borgate – si era nascosto per sfuggire alla cattura. Numerosi abitanti di Forno (tra cui due maestre della locale scuola, la signora Favero e Reginalda Santacroce, quest’ultima attiva come staffetta partigiana fin dall’autunno 1943) vengono condotti presso la scuola elementare di Coazze che era stata adibita a carcere. Qui la maestra Santacroce verrà interrogata a lungo ed infine bastonata. Anche membri del clero subiscono lo stesso trattamento. Don Beniamino Mattone, parroco di Forno, viene arrestato e trattenuto per tre settimane presso le carceri Nuove di Torino da dove sarà liberato solo grazie all’intervento del cardinal Fossati); il parroco di Giaveno, don Giovanni Crosetto, viene pubblicamente schiaffeggiato perché aveva espresso sdegno per le modalità di rastrellamento.

 

 

  Nei giorni successivi vengono uccisi cinque partigiani presso l’alpeggio della Balma (si tratta di Ernesto Cochetti, Giuseppe Mola, Michele Tessa, Gianni Onofri ed Alberto Zoppi) i cui corpi – sotterrati – saranno scoperti solo a luglio, altri lungo la mulattiera che da Forno sale verso il colle della Roussa e due a Giaveno. La parte più brutale del rastrellamento doveva però ancora avvenire.

  Nel pomeriggio del 16 maggio trentuno[44] uomini   circa  (tra i quali numerosi partigiani delle formazioni della valle, catturati nei giorni precedenti e rinchiusi nel carcere allestito presso la scuola elementare di Coazze) vengono fatti salire su un camion e condotti nella zona di  Forno. Tra loro, probabilmente, ci sono anche alcuni civili. Poco oltre il cimitero della borgata i prigionieri sono fatti scendere e vengono divisi in due gruppi: il primo si incammina sulla mulattiera che scende verso la riva destra del Sangone, l’altro prosegue verso Garida. Arrivati quasi alla riva del fiume i prigionieri vengono costretti a scavare una fossa (su questo e su altri punti però – non essendoci testimonianze dirette –  vi sono versioni discordanti). Verso le ore 17:00 sono divisi in otto gruppi di tre persone, vengono fatti allineare sul ciglio della fossa, e quindi colpiti alle gambe da alcune raffiche di mitra. Cadono nella buca ammassandosi l’uno sull’altro. Pochissimi muoiono subito, la maggior parte è agonizzante. Saranno lasciati morire per dissanguamento. Agli abitanti di Forno, che volevano vedere che cosa fosse successo, viene impedito con le armi di avvicinarsi al luogo dell’eccidio.  Nelle parole di alcuni testimoni si coglie ancora lo sgomento e lo sdegno suscitato da quella barbarie: «una scena da non credersi. Ce n’erano che non riuscivano a morire, che chiamavano aiuto e gemevano là sotto ancora il giorno dopo. E i soldati lì, che non si poteva fare un passo che ti sparavano addosso»[45] o ancora «persino alle bestie si porta più rispetto. Gli hanno sparato alle gambe per farli crepare un po’ alla volta. Erano ragazzi giovani, gente di vent’anni che dalla fossa chiamava la mamma. Mette i brividi solo a ricordarle ‘ste cose».[46]

  Alle prese Garida, intanto, altri quattro partigiani (tra i quali Renato Ruffinatti, che nei giorni precedenti era stato catturato e a lungo torturato) vengono fucilati e poi gettati in una fossa che gli era stata fatta scavare in precedenza.

  Il 18 maggio, dopo oltre una settimana di rastrellamenti e violenze, i nazi-fascisti abbandonano la Val Sangone. Il bilancio era pesantissimo: quasi cento partigiani  e diciotto civili uccisi, cinquanta arrestati e deportati, due borgate (Pontetto e Forno) e numerose altre abitazioni incendiate.

  Appena tre giorni dopo, però, una autocolonna tedesca ritornava in valle. Il 20, infatti, due ufficiali tedeschi erano stati uccisi durante una imboscata nei pressi della Bonaria, nel territorio del Comune di Chiusa San Michele. L’azione, organizzata da alcuni uomini della banda «Genio» tra cui il vice-comandante Rinaldo Baratta, è sicuramente dettata dal grande sgomento per la strage di Forno. La reazione dei nazi-fascisti (i caduti erano due ufficiali delle SS ed uno di essi, secondo quanto riporta Zanolli, era amico intimo di Hitler) non si fa attendere e si concentra subito sui civili. Una prima retata viene fatta nella zona della Bonaria ed anche la Sacra di San Michele viene perquisita. Il giorno successivo veniva fatto un nuovo rastrellamento più ad ampio raggio  con l’obiettivo  di catturare i  responsabili dell’uccisione dei due graduati. La  banda «Genio», però, era stata tempestivamente smobilitata  ed i suoi componenti  non vengono coinvolti nel rastrellamento. A farne  le spese, loro malgrado, sono tre soldati britannici che – dopo essere fuggiti da un campo di prigionia – si erano rifugiati nei boschi nella zona di Pian Aschiero, a monte della borgata Selvaggio in attesa di trovare un’occasione per riuscire a rientrare in patria. I tre vengono intercettati alle prese Rastrello nei pressi di Pian Aschiero. Due di essi, George Bambridge ed Harry Cockburn vengono uccissi, un terzo – Eric Latter – viene catturato. In seguito a torture Latter rivelerà che la popolazione di Selvaggio era stata solidale con loro e gli aveva spesso offerto vitto ed alloggio. Intanto, alle prese del Colonnello, sempre nella zona di Selvaggio, viene nuovamente ucciso un civile. Si tratta dell’anziano contadino Demetrio Tessa[48] a cui i tedeschi avevano intimato l’alt, ma questi – forse in preda al panico – invece di fermarsi si era messo a correre. La punizione più dura toccherà però al Selvaggio ed ai suoi abitanti. Il 22 maggio viene incendiata una casa sita alla Bonaria in prossimità del luogo dove sono stati uccisi i due ufficiali delle SS. Un successivo comunicato tedesco, distribuito tramite volantini, annuncia quindi che gli abitanti del Selvaggio e quelli della zona Braida-Valgioie dovranno abbandonare le loro case perché queste verranno presto cannoneggiate. Per i primi la colpa era quella di aver dato assistenza ai tre soldati inglesi, per gli altri quella di essere vicini al luogo in cui erano stati uccisi i due ufficiali. Dopo essere venuti a conoscenza dell’ultimatum sia il podestà Zanolli che il Prefetto di Torino Zerbino (ma anche esponenti del clero locale come don Crosetto che interessò anche la Curia di Torino) ed altre autorità si impegnarono per scongiurare queste azioni. Il giorno dopo, 23 maggio, i nazisti comunicarono che avrebbero risparmiato le case della zona Braida-Valgioie, mentre riguardo al Selvaggio si dimostravano irremovibili. Una trentina di abitanti del luogo, inoltre, vengono arrestati e condotti presso il comando tedesco di Valsalice a Torino e lì interrogati. Al termine degli interrogatori la maggior parte di essi verrà liberata. Altri, ritenuti collaboratori degli inglesi, saranno incarcerati ed in seguito deportati in Germania. Martedì 24 maggio gli abitanti di Selvaggio vengono fatti uscire dalle loro case e radunati in piazza. I tedeschi, dopo aver razziato quelle poche cose che erano rimaste nelle abitazioni, incendiano le case con i lanciafiamme e subito dopo iniziano a colpire a cannonate (vi saranno 102 colpi in tutto) la zona di Selvaggio Rio, la più popolata. Alla fine dell’azione vi saranno trentadue case distrutte. Veniva risparmiato, in extremis, solo il Santuario di Nostra Signora di Lourdes per la diretta intercessione di alte cariche ecclesiastiche (tra cui il cardinal Fossati).

  Ad ulteriore suggello di quello che sarà chiamato «Maggio di sangue», appena due giorni dopo giungevano in valle quarantuno prigionieri prelevati dalle carceri torinesi. Si trattava di partigiani (appartenenti a bande della zona ma anche del Canavese o della Val Chisone) catturati nel corso di precedenti rastrellamenti. Verranno tutti fucilati.  Significativamente, però, a  differenza  di quanto avvenuto a  Forno, l’esecu-zione non avverrà in una sola località ma in quattro posti diversi così da ottenere maggiore efficacia deterrente soprattutto nei confronti della popolazione.

 

 

  Undici ostaggi sono quindi uccisi alla Bonaria, tre gruppi di dieci a Valgioie, Giaveno e Coazze. Come ulteriore sfregio i nazi-fascisti impediscono la sepoltura immediata dei cadaveri che, infatti, rimarranno esposti per due giorni sorvegliati da guardie armate. Solamente il 28 maggio, dopo che gli ultimi tedeschi hanno lasciato la valle, può iniziare la ricerca dei corpi. Questa sarà portata avanti soprattutto dal viceparroco di Giaveno, don Carlo Busso, da numerosi valligiani e – a partire dai giorni successivi – anche dagli stessi partigiani. L’operazione, difficile e penosa, comportava il riconoscimento delle vittime e la loro successiva sepoltura.

  A fine maggio, dopo due settimane di violenta repressione, la situazione della Resistenza in valle non è buona. La popolazione civile, duramente colpita dai rastrellamenti, è più guardinga nei rapporti con i partigiani. Anche questi ultimi hanno avuto numerosi caduti (la banda «Sergio», come visto, è stata quasi completamente distrutta ed anche le altre formazioni, ad eccezione di quella di Cordero di Pamparato e Somaglino, hanno subito ingenti perdite). Fortunatamente, a favorire il superamento della crisi, viene in aiuto del partigianato locale la situazione positiva sullo scacchiere generale del conflitto. Il 4 giugno veniva liberata Roma, due giorni dopo gli anglo-americani sbarcavano in Normandia. Su tutti i fronti le difficoltà delle forze dell’Asse erano palesi. Il proclama del generale Alexander, datato 7 giugno, invitava gli italiani alla rivolta ed era un ulteriore stimolo per i partigiani. Queste notizie positive contribuiscono a dare al movimento resistenziale nuove forze per ricominciare. Coloro i quali erano riusciti a sfuggire ai rastrellamenti riprendono i contatti con i compagni che si erano rifugiati in pianura. Ad essi si aggiungono anche nuovi arrivi (a fine maggio non erano rimasti più di settanta-ottanta partigiani in valle), la maggior parte dei quali aveva rifiutato l’arruolamento nella Guardia Nazionale Repubblicana, nonché molti giovani della classe 1926. Nonostante questa veloce ripresa i vertici della Resistenza locale erano consapevoli che, per evitare conseguenze ancora più gravi nell’eventualità di nuovi rastrellamenti, fosse necessario mutare la struttura organizzativa delle bande. Queste, infatti, agivano senza un comando unificato ed avevano scarsi collegamenti con le formazioni delle valli limitrofe. Ricorda Giulio Nicoletta: «Non bastava ricominciare: bisognava ricominciare in un altro modo, con un’altra organizzazione, perché facendo ognuno per conto proprio si favoriva solo la reazione tedesca. Io avevo sempre sostenuto la necessità di un comando unico, adesso anche gli altri mi davano ragione»[49] Questa volontà di riorganizzazione e crescita era condivisa anche, più in generale, dall’intero movimento resistenziale italiano. In quest’ottica, il 9 giugno, viene creato il Corpo volontari della libertà (CVL). Il corpo, con sede a Milano, vede a capo del comando generale un membro in rappresentanza di ogni partito antifascista al governo.

 

 

  Ovviamente la definizione delle modalità con le quali attuare l’unificazione delle bande si dimostrava fin da subito un problema spinoso. Bisognava anzitutto indicare chi, tra i principali esponenti  della Resistenza  in valle, sarebbe stato il nuovo comandante. Su suggerimento di Guido Usseglio Mattiet la scelta cadde su Giulio Nicoletta.  A quest’ultimo venivano infatti riconosciute doti di autorevolezza e grande capacità di mediazione anche in situazioni difficili (aveva trattato con i tedeschi la liberazione degli ostaggi di Cumiana) inoltre era stimato da tutti gli altri partigiani. La nomina fu accettata, ma Sergio De Vitis pose come unica condizione che Nicoletta lasciasse il comando della propria banda. Un altro problema di grande importanza riguardava i metodi di lotta. Alla fine prevarrà la linea della prudenza (in contrasto con quella dell’intransigenza) e – memori anche dell’uccisione dei due ufficiali tedeschi alla Bonaria e della successiva ritorsione compiuta – veniva stabilito che non si sarebbe dovuto compiere nessun attacco preventivo ai danni di tedeschi o repubblicani e che si sarebbe dovuto intervenire con le armi solamente per necessità difensive.  

  A metà giugno, dopo che le decisioni prese dai vertici erano state approvate dalla base, si costituiva ufficialmente la “Brigata Autonoma Val Sangone”, comandata da Giulio Nicoletta (coadiuvato dal fratello Franco, da Costantino Somaglino, Antonio Tallarico e da alcuni altri partigiani) e che comprendeva cinque formazioni. La banda «Sergio», comandata da De Vitis con zona di influenza Forno, la «Frico» al comando di Federico Tallarico con sede nella zona Monterossino-Fusero, la «Campana» di Felice Cordero di Pamparato attestata tra Mollar dei Franchi e Provonda, la «Nino-Carlo» ufficialmente ricostituitasi solo a fine mese al comando di Criscuolo ed Asteggiano e con sede a Prafieul ed infine la «Carlo Carli», comandata da Eugenio Fassino, che agiva nella zona dorsale tra Val Sangone e Valle di Susa. Quest’ultima (che prendeva il nome da un partigiano valsusino caduto ad Avigliana nel gennaio del 1944) era l’unica formazione della zona che presentasse connotazioni politiche definite. La banda «Genio», dopo la sua scissione, aveva spostato il proprio raggio d’azione verso la Valle di Susa iniziando ad avere contatti con i partigiani della 17ª brigata garibaldina «Felice Cima», fino all’adesione della stessa banda di Fassino ai garibaldini ufficializzata con la costituzione della 41ª brigata d’assalto garibaldina «Carlo Carli». Nella banda «Genio» comunque era già presente da tempo un orientamento vicino alle posizioni comuniste, influenzato anche dalla presenza di alcuni partigiani russi (tra cui Vladimir e Sergej).

  Da metà giugno, intanto, erano ricominciati i «colpi» in pianura. Tra il 10 ed il 22 i partigiani effettuano cinque azioni di notevole importanza. Vengono recuperate armi, munizioni e viveri (il 14 al dinamitificio Nobel-Allemandi di Avigliana, il 18 presso la FIAT Lingotto ed il 22 al magazzino militare di Orbassano), inoltre viene attaccato un posto di blocco (a Beinasco, da un reparto della «Carlo Carli»), nonché una colonna di camion tedeschi a Trana. Ad appena un mese dalla conclusione della durissima offensiva nazi-fascista era ormai chiaro come il movimento resistenziale avesse ripreso – in tutto il nord Italia ed anche in Val Sangone – forza e vigore. Nell’ottica di questo ritrovato entusiasmo veniva preparato un attacco congiunto che interessava le formazioni della Val Sangone e quelle delle valli limitrofe, da attuarsi il 26 giugno in più luoghi contemporaneamente. Le diverse bande avrebbero dovuto colpire punti strategici delle rispettive zone: Pinerolo, Viù e Castellamonte per le bande della Val Chisone e delle valli di Lanzo, il presidio di Rivoli per i valsusini della «Felice Cima», la «Walter Fontan» avrebbe attaccato la caserma di Bussoleno, bloccando anche la ferrovia. Tra le formazioni della Val Sangone gli uomini della «Carlo Carli» avevano il compito occupare il dinamitificio “Nobel-Allemandi”, mentre il gruppo di De Vitis avrebbe attaccato la polveriera a Sangano. Gli altri componenti della «Brigata autonoma Val Sangone» si sarebbero tenuti nelle retrovie pronti ad intervenire in caso di necessità.

  Alle prime luci dell’alba, con un’azione fulminea, Sergio De Vitis ed i suoi uomini riescono ad impadronirsi della polveriera in appena mezz’ora e diciassette tedeschi vengono fatti prigionieri. Mentre l’edificio viene perquisito, i prigionieri vengono trasportati a Forno. De Vitis, intanto, consapevole che i nazi-fascisti avrebbero predisposto un contrattacco per riprendere il controllo della polveriera, inizia ad organizzarne la difesa. 

  In Valle  di Susa, intanto, le operazioni non vanno come previsto. Ad Avigliana i partigiani della «Carlo Carli» attaccano simultaneamente il dinamitificio “Nobel-Allemandi” e la polveriera “Valloia” ma, inaspettatamente, trovano una strenua resistenza (vengono anche colpiti con raffiche di mitragliatrice) e devono quindi ripiegare verso il centro di Avigliana. Alcuni di loro (tra cui Eugenio Fassino) decidono di dirigersi verso la stazione, ma qui un gruppo di fascisti – nascosti in un treno merci – sorprende i partigiani che vengono attaccati. Fassino viene colpito dal fuoco nemico, e, ferito gravemente, viene arrestato. Peggio va al giovane Guerrino Nicoli, di 17 anni, che viene ucciso con un colpo alla nuca (gli sarà conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria).

  Giulio Nicoletta, appena aveva saputo delle difficoltà incontrate dalla «Carlo Carli», aveva deciso di recarsi ad Avigliana con le formazioni rimaste in montagna (tranne quella di Cordero di Pamparato che era stata inviata a Trana per bloccare la strada ad eventuali attacchi nazi-fascisti provenienti dalla pianura). Arrivati nei pressi dell’abitato si rendono però conto che non è possibile intervenire perché i tedeschi sono presenti in numero troppo elevato e con numerosi carri armati e mezzi pesanti.

  Dopo un lungo combattimento aveva avuto esito negativo anche l’attacco contro la caserma di Bussoleno compiuto dai partigiani della «Walter Fontan», che erano costretti ad abbandonare la cittadina.

  Nel corso del pomeriggio del 26 giugno, intanto, giungeva nella zona della polveriera di Sangano (che nel frattempo era stata minata dagli uomini di De Vitis) una autocolonna nazi-fascista composta da quasi 300 uomini. Lo scontro si scatena subito violento. I partigiani – che avevano anche tre mitragliatrici – combattono strenuamente nonostante la differenza numerica di uomini e mezzi, riuscendo a bloccare i nemici nel fondovalle, consapevoli anche che una loro eventuale ritirata troppo anticipata avrebbe permesso alla colonna tedesca di dirigersi verso Giaveno e di sorprendere le altre formazioni alle spalle. Verso le 17:00, però, avendo compreso che la situazione stava volgendo verso il peggio, Sergio De Vitis ordina la ritirata della formazione. Il comandante ed un piccolo gruppo di partigiani rimangono alle postazioni per proteggere il movimento dei compagni. Quando questi ultimi sono riusciti ad allontanarsi senza problemi, De Vitis ed i suoi escono allo scoperto ed iniziano a  dirigersi verso Trana per poi proseguire in direzione di Giaveno. A metà percorso il gruppo viene intercettato da un pattuglia nemica. Dopo una violenta sparatoria i partigiani hanno la peggio: otto di loro vengono uccisi durante lo scontro a fuoco (tra essi c’è anche Sergio De Vitis[50], colpito da una raffica di mitra), Giancarlo Bressi ed Arrigo Craveia – che avevano disertatato alcuni giorni prima dalla base di Airasca – vengono riportati presso il loro reparto e lì fucilati, Teresio Gallo è catturato e sarà condotto in un campo di prigionia. Eugenio Masiero, che riesce a scappare seppur ferito, cadrà alcune ore più tardi ad Orbassano. L’unico a salvarsi è Luciano Vettore. Dopo lo scontro l’autocolonna tedesca cerca di raggiungere Giaveno ma viene fermata da Cordero di Pamparato e dai suoi uomini. Il bilancio, a fine giornata, era pesante: venti partigiani morti (tra cui un comandante) e numerosi feriti. Si creavano anche numerose polemiche fra le formazioni di Val Sangone e Val di Susa che si attribuivano vicendevolmente le colpe per il fallimento dell’azione.

  Il giorno successivo, intanto, i tedeschi tornavano in zona e prendevano in ostaggio quaranta civili a Trana minacciandone la fucilazione immediata se i militari catturati alla polveriera non fossero stati liberati. A differenza di quanto era successo a Cumiana, l’abboccamento era immediato e – già nel primo pomeriggio – Giulio Nicoletta era a Trana per trattare con il comando tedesco. Ora, però, i rapporti di forza rispetto ai fatti di aprile si erano capovolti – anche a causa del cattivo andamento della guerra per le forze dell’Asse – a favore dei partigiani. Si arrivava ad un accordo e, a sera, dopo la restituzione dei militari catturati, i quaranta civili tranesi venivano liberati. Assieme a loro venivano rilasciati anche tre partigiani catturati in precedenza (tra essi Eugenio Fassino, il quale – ancora in gravi condizioni di salute – veniva ricoverato di nascosto all’ospedale di Giaveno).

  La banda che aveva subito le conseguenze peggiori a seguito dei fatti di fine giugno era certamente la banda «Sergio» che, tra i numerosi caduti, aveva perso anche il proprio comandante ed uomo di maggior carisma. Il comando veniva ora affidato a Giuseppe Falzone, ventottenne ufficiale di carriera di origine pavese, già vice di De Vitis. Sotto il comando di Falzone la formazione (che intanto, come le altre bande, aveva assunto l’appellativo di «Brigata» ed era stata intitolata a Sandro Magnone caduto a maggio al Sellery inferiore) subisce un importante rinnovamento. Tale rinnovamento è da ricercarsi anzitutto nella strategia da adottarsi nei confronti del nemico – decisamente più attendista rispetto a quella di De Vitis – e poi nella struttura organizzativa, che arriva ad assomigliare a quella di una brigata dell’esercito regolare: comandante, vice comandante, commissario di guerra, vice commissario di guerra, capo di stato maggiore, ufficiale addetto servizi sanitari, ufficiale addetto servizi informazioni. Significativamente il ruolo di vice commissario di guerra era affidato ad una donna, Celestina, «Cele», Magnone, sorella di Sandro. Nelle fila della brigata «Campana», un’altra donna, la giavenese Irene Usseglio, ricopriva invece il ruolo di ufficiale addetto al servizio informazioni. La presenza femminile durante la Resistenza fu certamente di notevole importanza anche se poche, almeno in Val Sangone, furono le donne inquadrate nelle formazioni o che imbracciarono materialmente le armi. Numerose erano invece le staffette, o coloro che – a vario titolo – recuperavano informazioni o portavano aiuto ai partigiani. Tra esse la già ricordata Reginalda Santacroce, maestra a Forno, oppure Maria De Vitis (sorella di Sergio). Un ruolo parimenti importante – anche se non a stretto contatto con le formazioni – ebbe la moglie del notaio Teppati, Mimì.

  Dopo il sostanziale fallimento delle operazioni del 26 giugno le attività partigiane ricominciavano frenetiche. I nazi-fascisti, dopo il grande rastrellamento di maggio, non si impegnavano più in attacchi della stessa portata ma si limitavano soltanto a qualche breve incursione. A partire dall’inizio di luglio, quindi, i partigiani ripresero ad eseguire numerose azioni, soprattutto in pianura. Da un punto di vista tattico era infatti più proficuo organizzare azioni in pianura (evitando così ogni coinvolgimento della popolazione della valle) di breve durata e compiute da squadre composte da pochi uomini rinunciando ad occupazioni stabili ed azioni coordinate tra più formazioni contemporaneamente. Si trattava soprattutto di sabotaggi – ad impianti militari, fabbriche, linee elettriche, linee ferroviarie e rotabili – ma anche di appostamenti lungo le strade per controllare i movimenti del nemico oppure intercettarne automezzi isolati. Tra le numerose azioni si possono ricordare il sabotaggio di due stazioni radio-faro presso il campo a volo di Airasca con la cattura di ventisei militi repubblicani (successivamente verrà anche attaccato l’edificio adiacente al campo da dove verranno prelevate numerose armi da fuoco), la distruzione di circa quindici metri di linea ferroviaria tra Buttigliera e Rosta e oltre cinquanta metri di binari alla stazione di Sant’Ambrogio. Continuavano inoltre gli assaltati a deposti di viveri o carburante come già avveniva da alcuni mesi.

  In alcune azioni (soprattutto durante gli appostamenti sulle strade) non erano infrequenti le sparatorie con i nazi-fascisti: sette di loro vengono uccisi nel solo mese di settembre (tra cui tre a Stupinigi il giorno 9).

  Nel mese di luglio, intanto, i nazi-fascisti iniziavano una violenta offensiva contro le valli limitrofe alla Val Sangone, con l’obiettivo primario di sradicare le bande ed eliminare la zona libera che si era creata a partire da fine maggio in Val Chisone. Inizialmente la Val Sangone ne veniva colpita solo incidentalmente, ma, a partire dal 16 agosto, arrivavano in valle reparti della «Ettore Muti» e della «Ather Capelli». Questi si limitavano ad azioni dimostrative e di intimidazione (numerosi civili furono tenuti in ostaggio – a Coazze e Giaveno – ma liberati dopo poche ore), tuttavia l’operazione costò al movimento resistenziale in valle una grave perdita. Il marchese Felice Cordero di Pamparato, comandante della brigata «Campana», veniva arrestato ed interrogato a lungo a villa Garrone. Secondo quanto riportato da don Giuseppe Marabotto, nel già citato Un prete in galera, gli veniva offerta la possibilità di diventare ufficiale nelle file della RSI, «Campana» rifiutava e ne veniva decretata l’esecuzione. Nella serata del 17 agosto il comandante veniva condotto presso l’“Albergo Centrale” di via Torino (l’attuale viale Regina Elena) dove era impiccato[51] al balcone di casa Giai. Insieme con lui subivano la stessa sorte anche altri tre partigiani: Giorgio Baraldi, Vitale Cordin e Giovanni Vigna. Il primo militava tra le fila della brigata «Secondo Nebiolo», gli altri erano due appartenenti a formazioni della Val Pellice. I cadaveri rimasero lì esposti – come macabro monito alla popolazione – per un paio di giorni, fino a quando i rastrellatori non abbandonarono la valle.

  Come nuovo comandate della brigata «Campana» venne chiamato il professor Guido Usseglio Mattiet, già importante collaboratore della Resistenza, che prendeva il nome di battaglia «696».

  Intanto erano ricominciati i contatti con gli Alleati (in essere fin dall’inverno del 1943 e che avevano portato ad alcuni lanci di modesta entità a maggio), favoriti anche dalla mutata situazione generale della guerra. Nel corso dell’estate arriva in valle il capitano britannico Patrick O’Regan[52], incaricato di stabilire contatti con le formazioni partigiane delle tre valli. Grazie alla presenza di O’Regan (il quale, pur con un piccolo intervallo tra ottobre e novembre, sarebbe rimasto in zona fino alla Liberazione) riprendevano anche i lanci di materiale. All’inizio erano quantitativamente modesti poiché, in Val Sangone come nel resto d’Italia, gli Alleati erano ancora diffidenti verso la Resistenza, intimoriti soprattutto da un possibile predominio social-comunista all’interno del movimento. In seguito – in particolare a partire dall’inizio di dicembre – grazie anche alle buone impressioni avute dal capitano O’Regan, i lanci divennero quantitativamente un po’ più abbondanti.

  Proprio gli Alleati, intanto, si erano resi responsabili di un bombardamento ai danni dello jutificio “De Fernex” di Coazze. L’azione, avvenuta il 28 agosto, non aveva provocato vittime ma aveva causato numerosi danni. Paolo Venco, figlio del direttore dello stabilimento e che all’epoca aveva dieci anni, ricorda così l’accaduto: «Nel  pomeriggio, verso le ore 16,30 io (allora appena un ragazzo) e la signora Margherita Usseglio (che prestò servizio per tanti anni presso la mia famiglia) decidemmo di andare a prendere dell’acqua alla rinomata fontana “la Rasciasa” verso Ponte Pietra (…) dopo pochi minuti sentimmo il rumore di aerei che, a bassa quota, sorvolarono la zona sopra al Sangone. Ricordo che gli aerei volarono a gruppi di tre per volta per un totale di dodici velivoli. Immediatamente sentimmo il sibilo delle bombe appena sganciate e dopo pochi secondi attorno a noi scoppiò il finimondo, con zolle di terra e schegge di bombe che volavano da tutte le parti. […] Terminato il bombardamento (durato un paio di minuti) decidemmo di tornare verso casa per vedere i danni provocati dagli aerei; questi ne provocarono veramente tanti, a questo proposito ricordo che arrivammo davanti alla fabbrica e vedemmo un muro crollare, aprirsi e lasciare rotolare giù per il prato sottostante alcuni macchinari. […]»[53].

  Nel corso dell’estate riprendevano anche i contatti con le formazioni delle valli limitrofe che si erano parzialmente interrotti dopo il 26 giugno. Vi era, infatti, necessità di scambi di informazioni e materiali nonché un più generale, e condiviso, bisogno di coordinamento tra le varie anime della Resistenza. Con finalità di coordinamento delle attività partigiane era nato, a giugno, il già citato Corpo volontari della libertà (CVL). Per garantire un maggiore coordinamento il CLN prendeva la decisione di dividere il Piemonte in nove zone territoriali militari, controllate da un comando di zona nel quale sarebbero state rappresentate tutte le formazioni presenti in quell’area. La Val Sangone, la Valle di Susa e la Val Chisone vengono inserite nella IV Zona, la cui creazione viene ufficializzata il 1° settembre. Il quartier generale del comando veniva stabilito presso due baite nella zona della borgata Maddalena, sopra Giaveno (anche se l’unico membro del comando ad avere legami con la Val Sangone era Ugo Campagna, a capo del servizio informazioni).

  All’inizio di ottobre, intanto, si creavano nuovi problemi per la «Carlo Carli». Rinaldo Baratta, nominato comandante dopo il ferimento di Fassino a giugno, veniva ucciso durante uno scontro a fuoco a Sant’Ambrogio. A metà mese Eugenio Fassino, completamente ristabilitosi, poteva riprendere il comando della brigata. Iniziavano però ad emergere più distintamente delle frizioni con  i garibaldini (la «Carlo Carli» era inquadrata nella 3ª divisione garibaldina Piemonte) già latenti da qualche mese. L’attitudine autonoma, e l’abitudine ad una certa libertà di azione, del gruppo di Fassino mal si conciliava con le rigide regole imposte dalla divisione. Il 29 ottobre la brigata arrivava quindi ad una nuova scissione: un primo gruppo – il più numeroso, e che includeva anche Eugenio Fassino – si univa alla formazione di Nino Criscuolo formando la banda «Nino-Genio» (poco dopo rinominata brigata «Ferruccio Gallo» che si stabiliva in zona Indiritto), il rimanente della vecchia brigata manteneva il nome passando al comando di Vincenzo Blandino.

  Il 14 ottobre, su espressa richiesta del comandante della IV Zona Antonio Guermani, veniva creata la divisione autonoma «Sergio De Vitis» (che più avanti prenderà il nome di 43ª divisione autonoma «Sergio De Vitis») che riuniva tutte le formazioni della Val Sangone e vedeva a capo Giulio Nicoletta. Allo stesso tempo anche le sei brigate della valle iniziavano a venire intitolate a partigiani caduti: la brigata «Sandro Magnone» comandata da Falzone, la «Campana» al comando di Guido Usseglio Mattiet, la «Ruggero Vitrani» di Carlo Asteggiano e poi – a partire da gennaio del 1945 – comandata da Guido Quazza, la brigata «Ferruccio Gallo» di Criscuolo e  Fassino, la   «Lillo Moncada» di  Tallarico  (da gennaio 1945 comandata da Franco Nicoletta) ed infine la «Edo Dabbene» di Michele Ghio. Questa suddivisione verrà mantenuta fino alla fine del conflitto.

  A guastare questo periodo positivo per i partigiani  provvidero le cattive notizie provenienti dalle vicende generali della guerra, con gli Alleati bloccati sulla Linea Gotica, le truppe germaniche che riconquistavano le Ardenne, e la certezza di dover trascorrere un altro inverno in montagna. Inoltre, a partire dalla sera del 26 novembre, dopo alcuni mesi di relativa calma, i tedeschi conducevano un nuova serie di attacchi alle formazioni della Val Chisone e della Val Sangone. Il rastrellamento iniziava presso la Verna di Cumiana, già base della banda «Nino-Carlo» tra il 1943 ed i primi mesi del 1944 , ed ora zona di influenza della 6ª brigata «Antonio Catania». Proprio questi ultimi, la sera del 26, venivano attaccati – in forze e con armi pesanti – da un reparto tedesco. L’esito dell’azione, inaspettata e rapida, era tragico: diciannove morti (quattordici partigiani e cinque civili) e dieci catturati.

  Il giorno seguente il rastrellamento raggiungeva la Val Sangone. La brigata di Falzone è la prima ad essere attaccata, ma i partigiani – divisisi in piccoli gruppi e sfruttando anche nascondigli preparati in precedenza – riescono ad eludere l’azione non facendosi trovare. Allo stesso modo si comporta la formazione di Asteggiano. Sorte peggiore, invece, tocca alle formazioni di Guido Usseglio Mattiet e di Federico Tallarico. Sorpresi dall’attacco i due gruppi si disperdono frettolosamente cercando di raggiungere la pianura. Dieci partigiani vengono uccisi e altri sono catturati.

  Il 30 il comando tedesco decide la pubblica esecuzione di tutti i partigiani catturati nei giorni precedenti (e di alcuni prelevati dalla carceri di Torino). In diciassette vengono uccisi in piazza a Giaveno e lì lasciati esposti fino al giorno seguente.

  Il rastrellamento di novembre, oltre che per i numerosi caduti partigiani, è anche da ricordare per le immani violenze perpetrate ai danni dei civili. Una quarantina perderanno la vita nei giorni di presenza tedesca in valle. La maggior parte di essi nelle borgate vicino a Giaveno (in particolare Provonda, ma anche Ruata Sangone, Monterossino e Mollar dei Franchi). Molto numerosi anche gli incendi, di intere frazioni o di singole abitazioni, ed i saccheggi.

  Il 1° dicembre, dopo quattro giorni di rastrellamenti, i tedeschi erano pronti a lasciare la valle. Proprio mentre la colonna di automezzi stava allontanandosi da Giaveno, gli anglo-americani effettuavano un lancio di armi e munizioni diretto ai partigiani nella zona di Prafieul. Il gran numero di casse, lanciate tramite paracadute, venivano ovviamente notate anche dai tedeschi, che decidevano di tornare subito indietro. Si dirigevano nella zona di Prafieul e riuscivano ad intercettare quasi tutto il materiale. I partigiani, con quel poco che erano riusciti ad accaparrarsi, dovevano nuovamente ritirarsi verso l’alta valle. A seguito di questo avvenimento, i rastrellatori decidevano di rimandare la partenza  e – forse credendo che i partigiani fossero in numero decisamente maggiore rispetto alla realtà – decidevano di occupare militarmente la Val Sangone. Tutte le borgate vicino a Prafieul venivano devastate e bruciate. Centinaia di persone erano interrogate, arrestare e condotte in carcere. Tra essi anche il parroco di Trana, don Gianolio, ed il podestà Zanolli incarcerato per quasi un mese a Pinerolo. Stretti in questa difficile situazione i partigiani della valle cercavano quasi tutti di abbandonare la montagna e trovare rifugio in pianura. Questa “pianurizzazione” forzata si rivelerà, alla lunga, uno degli elementi chiave per il successo del movimento resistenziale. In pianura i partigiani potevano riorganizzarsi trovando l’appoggio sia della popolazione civile (appoggio che già avevano in montagna) sia degli operai delle fabbriche. Proprio questi ultimi avevano contribuito, in maniera fondamentale già a partire dal 1943, con scioperi e sabotaggi della produzione bellica, alla lotta contro il nazifascismo. In definitiva, se in questo periodo le azioni militari si fanno più rare (erano molto più difficili da compiere in pianura rispetto che in montagna ed il rischio di rappresaglie contro i civili era maggiore), si infittiscono invece i contatti con tutto quel retroterra sociale che appoggiava la Resistenza.

  A fine marzo 1945 un bollettino[54] diffuso dal comando della IV Zona Piemonte elencava un totale di 763 partigiani appartenenti alle diverse brigate della Val Sangone. Di questi 205 si trovavano ancora in valle, mentre 558 erano ormai in pianura. Al computo si aggiungevano anche 110 appartenenti al comando divisione che facevano salire il totale delle forze a disposizione della divisione autonoma «Sergio De Vitis» a 873 elementi. Rispetto all’inizio dell’anno vi era stato un grande incremento di uomini, influenzato anche dalle numerose difficoltà incontrate dai nazi-fascisti appena finito l’inverno e che facevano vedere ormai vicina la fine della guerra. Oltre ai partigiani “regolari” bisognava anche aggiungere una sempre più numerosa schiera di collaboratori e simpatizzanti alcuni di essi disponibili anche a prendere parte ad azioni armate (il già citato bollettino parla di 178 elementi «reclutabili in 24 ore»[55]).

  Il 12 febbraio, intanto, era avvenuto – nei dintorni di None – un nuovo lancio di armi e munizioni da parte degli anglo-americani destinato alla divisione autonoma. Quando il materiale era stato interamente recuperato dai destinatari il capitano O’Regan prendeva la decisione di far dividere quanto lanciato tra tutte le formazioni della IV Zona. Tale decisione, fortemente avversata da Giulio Nicoletta e dallo stesso comando di Zona, è da inserirsi nel clima di collaborazione sospettosa tra i partigiani e gli Alleati (comune a tutta la penisola) con questi ultimi che cercavano in ogni modo di evitare un possibile predominio social-comunista all’interno del movimento resistenziale. Si è però visto in precedenza che l’unica formazione della valle vicina ai garibaldini fosse quella di Fassino, la quale, comunque, aveva agito più in Valle di Susa che non in Val Sangone. Alla fine, nonostante tutto, Nicoletta e gli altri dovettero accettare le decisioni di O’Reagan e del comando alleato, per evitare una compromissione dei rapporti di collaborazione che, in un momento così delicato, avrebbe potuto rivelarsi fatale.

  Nel mese di marzo vi era stato anche un importante cambiamento dal punto di vista   politico: la brigata «Campana»  aveva infatti chiesto (ed ottenuto, ma non senza polemiche e scetticismo) di diventare una brigata GL. La decisione non era stata presa d’impeto, ma era  maturata nel corso  di alcuni mesi, in particolare a seguito della nomina a comandante del professor Guido Usseglio Mattiet (quest’ultimo, infatti, era un importante esponente locale di Giustizia e Libertà , mentre il Marchese di Pamparato era – anche per ragioni famigliari – un monarchico convinto).

   Nel frattempo la situazione per i nazi-fascisti stava peggiorando sempre di più. In Italia si stava attuando l’attacco anglo-americano in direzione della Pianura Padana mentre sul piano internazionale gli Alleati erano ormai entrati i territorio tedesco e, dopo aver preso Colonia, si stavano dirigendo verso Berlino. L’eco di questi eventi veniva avvertito anche in Val Sangone. Il 18 marzo i tedeschi abbandonavano il presidio di Giaveno, il 25 quello di Coazze. Dopo molti mesi la valle era libera. A seguito della partenza dei tedeschi alcuni gruppi di partigiani decidevano di ritornare in valle, anche se la maggior parte delle forze erano lasciate in pianura per presidiare le direttrici stradali più importanti e controllare gli spostamenti del nemico. A proposito del ritorno di alcuni gruppi di partigiani, il podestà Zanolli così si esprime nel suo diario: «i partigiani sono tornati e si alloggiano non più al Forno ed al Sangonetto, ma in Giaveno, nelle case private e negli alberghi, e sono sempre armati, anche in paese».[56]

 

 

  Ovunque i locali comitati di liberazione (oppure gli stessi comandi partigiani nei luoghi in cui i comitati non erano ancora stati formati) assumono i poteri prima detenuti dalla autorità municipali repubblicane. A Giaveno il CLN provvede anche alla creazione di alcuni centri di raccolta viveri da distribuire ai civili più indigenti.

   C’è ormai la consapevolezza diffusa di una imminente fine del conflitto. Il primo atto dell’insurrezione finale avviene nella mattinata del 18 aprile quando gli operai delle fabbriche torinesi aderiscono compatti all’appello diffuso dal CLN una settimana prima che esortava i lavoratori ad uno «sciopero generale contro la fame e il terrore». In breve tempo l’agitazione si estendeva alla provincia ed anche alla Val Sangone: a Giaveno veniva bloccata la tramvia della Satti e venivano chiusi tutti gli stabilimenti della zona.

  La sera del 24 aprile viene dato inizio effettivo all’insurrezione attraverso l’ordine n. 3000/5, diramato a tutti i comandi di Zona, e che iniziava con le parole: «Aldo dice 26 x 1. Nemico in crisi finale. Applicate Piano E 27 (…)». Questo piano, la cui prima stesura risaliva all’autunno 1944, prevedeva che a liberare Torino, prima dell’arrivo degli Alleati, fossero i partigiani. Perché ciò avvenisse doveva esserci una stretta collaborazione tra le formazioni cittadine e quelle della provincia. Con le prime impegnate anche difendere stabilimenti industriali e vie di comunicazione da eventuali attacchi del nemico e le altre incaricate di disturbare la ritirata dei tedeschi.   Compiti precisi, e di notevole importanza, erano assegnati anche agli uomini della divisione autonoma «Sergio De Vitis». Essi dovevano eseguire azioni di rastrellamento in pianura ed occupare la zona cittadina compresa tra corso Stupinigi e Santa Rita, con l’obiettivo finale di occupare le caserme ed i presidi militari lì presen ti. Con Giulio Nicoletta al comando, gli uomini delle brigate di Nino Criscuolo, Giuseppe Falzone, Franco Nicoletta e Guido Quazza si dirigono – all’alba del 26 aprile – verso Torino (nelle vicinanze del capoluogo si aggregherà a loro anche la brigata di Guido Usseglio Mattiet). Dopo lunga attesa, però, viene loro comunicato che l’entrata in città è rimandata al giorno seguente. Finalmente, il 27 aprile, i partigiani della Val Sangone posso marciare sulla città. La prima formazione ad entrare a Torino è quella di Falzone che si dirige verso Santa Rita. Durante il tragitto, però, incontrano una colonna di autoblindo tedeschi in ritirata: il conflitto a fuoco che ne segue provoca cinque morti e cinque feriti nelle fila della «Sandro Magnone».[57]

  Le altre formazioni, invece, non incontravano resistenza e penetravano agevolmente in città. Le brigate di Criscuolo e Quazza entrano negli stabilimenti FIAT di Mirafiori, quelli del Lingotto sono invece occupati da Franco Nicoletta e Ugo Giai Merlera (della «Campana»). I partigiani della «Carlo Carli», che erano rimasti fuori Torino, attaccano e conquistano l’Aeronautica di Grugliasco catturandone il presidio.

  Il giorno successivo la liberazione del capoluogo è completata: gli uomini di Falzone prendono possesso della caserma “Monte Grappa” mentre Guido Usseglio Mattiet ed i suoi occupano la Casa Littoria di piazza Carlo Alberto ribattezzandola «Palazzo Campana» in onore di Felice Cordero di Pamparato.

  In Val Sangone, intanto, venivano predisposti posti di blocco per presidiare le strade principali, ma la maggior parte dei tedeschi e dei repubblicani non ancora catturati si consegnava spontaneamente. Le truppe tedesche, con la Germania ormai sconfitta e Mussolini arrestato e poi giustiziato a Milano, si rendevano ancora responsabili di un barbaro eccidio, fucilando sessantasei civili a Grugliasco.

  Il 1° maggio – mentre veniva ripristinata la Festa dei lavoratori – i partigiani rientravano in valle. Per una settimana le fabbriche rimanevano chiuse e si proseguiva con i festeggiamenti e le celebrazioni dei caduti. Poi, lentamente, la vita ricominciava. «Ho provato un grande senso di sollievo. Come da un incubo che mi abbia tenuto, che mi abbia oppresso per degli anni che sembravano infiniti. E che a un certo punto questa cappa di piombo che mi premeva si è sollevata ed è arrivato il sereno».[58] 

 

Successivo 1943